Virgin Mountain

Dagur Kári

 

Fusi è un quarantenne che fatica a entrare nel mondo degli adulti, trascinandosi in una realtà fatta di monotonia e routine. Quando una donna iperattiva e un bimbo di otto anni piombano improvvisamente nella sua vita, è costretto a saltare le tappe e assumersi le sue responsabilità. La favola di Fusi è “umana”, poetica e agrodolce, con quel giusto tocco di sfumature malinconiche che rendono il tutto realistico e verosimile. Un delicato ritratto di estraneità, a tratti, surreale.

 

 

Fúsi
Islanda 2015 – 94’

Virgin Mountain è un uomo obeso e solitario, la montagna vergine di cui parla il titolo del film. Nonostante sia ormai quarantenne, non ha mai avuto una fidanzata, è vittima di bullismo sul posto di lavoro – il dipartimento bagagli dell’aeroporto locale – e vive ancora con la madre, un’anziana signora che ha più vita sociale di lui. Per riempire le proprie giornate, Fúsi si è costruito una prigione confortevole di abitudini strettamente scandite nella quotidianità: i suoi cereali al cioccolato, la sua musica heavy metal, il plastico con la battaglia di El Alamein su cui gioca lunghe combattimenti con l’unico amico, il pranzo settimanale al ristorante tailandese. Malgrado l’alienante monotonia, o forse proprio a causa di questa, i suoi rituali lo fanno vivere serenamente, e sembra non ci sia niente che egli chieda in più dalla vita. Se non che in occasione del suo compleanno, la madre decide di spedirlo ad una lezione di ballo: niente di più fuori luogo per un amante della musica heavy metal. L’esperienza non partirà mai. Egli si rifiuterà, infatti, anche soltanto di entrare nell’edificio, restando fermo nella macchina parcheggiata, ma gli permetterà di imbattersi nella problematica Sjöfn. Com’è prevedibile, dal fortuito incontro la sua vita ne uscirà completamente rivoluzionata.

ecodelcinema.it

Per descrivere il personaggio di Fusi, protagonista dell’ultimo film di Dagur Kári, Virgin Mountain (Fúsi, 2015), probabilmente non esiste termine più appropriato di “bamboccione”. E non solo perché stiamo parlando di un uomo di 43 anni che vive ancora a casa della madre e che trascorre i suoi pomeriggi dipingendo miniature di carrarmati della Seconda Guerra Mondiale, ma perché Fusi (interpretato dall’ottimo Gunnar Jónsson) è, di fatto, una specie di adolescente abnorme anche nel fisico, un pulcino biondo gigante, una soffice massicciata disfunzionale che si staglia contro il grigiore del paesaggio islandese. Non ha una vita sociale, lavora come addetto allo scarico dei bagagli in un aeroporto dove viene regolarmente bullizzato dai colleghi.
Grande consumatore di latte e cereali, si concede una volta a settimana di andare a cenare (da solo) in un ristorante thai dove ordina sempre lo stesso piatto. Il suo migliore amico è il dj di una radio locale con cui chiacchiera per telefono durante il programma della sera richiedendo pezzi heavy metal. Potremmo dire che Fusi è un omone, ma che il suo approccio esistenziale è decisamente piccolo: gioca a fare la guerra, ma non combatte una vera battaglia con la vita. Il suo dramma di alienazione è una questione di scale, di enormità che cozzano contro infinitesimi: sono le proporzioni ad essere sbagliate, così come le dimensioni dei suoi spazi vitali. (…) Un ritratto di estraneità, delicato e, a tratti, surreale.

Simona Busni – cinematografo.it

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