Il lungo giorno finisce

Terence Davies

Tra il 1955 e il ’56, un anno nella vita dell’undicenne Bud (Leight McCormack), sospeso tra l’amore per la madre e i primi turbamenti omosessuali, il misticismo delle cerimonie religiose, la crudeltà della scuola, il fascino del cinema e della musica. Una narrazione non lineare ma che procede piuttosto per accumulo: immagini e soprattutto di suoni, dove esperienza vissuta e fantasia si mescolano in maniera indissolubile. Davies è abile nell’evitare qualsiasi manierismo, creando un’atmosfera vagamente onirica, a dir poco suggestiva e spiazzante, che restituisce un senso di solitudine e al contempo di magia e meraviglia.

 

The Long Day Closes
Gran Bretagna 1992 – 1h 24′

Un anno di vita del giovane Bud (Leigh McCormack), ragazzo di Liverpool, tra il 1955 e il 1956. L’amore per la madre (Marjorie Yates), il senso di inadeguatezza con i compagni di scuola, la crudeltà degli insegnanti, la fascinazione per il cinema e per la musica, la curiosità per la religione, le prime avvisaglie della propria omosessualità: tutto questo costituisce il passaggio dall’infanzia all’adolescente del piccolo Bud. Opera terza di Terence Davies, che torna a raccontare, con evidenti cenni autobiografici, la dissoluzione di un mondo lontano nella memoria ma vivido nel cuore, metafora evidente di un’infanzia ricca di momenti felici e bui, di gioie e di delusioni, del calore familiare e della rudezza del mondo esterno (specie della scuola), il tutto ricordato con affetto e nostalgia. Il racconto mischia il piano della realtà con digressioni oniriche e concilia toni più melodrammatici con tocchi di umorismo, mentre la narrazione è cadenzata una tenerezza mista a malinconia e a un lirismo sempre sorprendente per come sa emozionare in modo essenziale e profondo. Seguito ideale di Voci lontane…sempre presenti (1988), il film di Davies è abile a evitare qualsiasi manierismo, creando un’atmosfera vagamente onirica a dir poco suggestiva e spiazzante che restituisce un senso di solitudine e al contempo di magia e meraviglia (esemplare l’amore che traspare per la musica e per il cinema), dando vita a un racconto agrodolce che sa essere struggente per come illustra anni felici e contraddittori che preludono alla perdita dell’innocenza.

longatake.it

Ho voluto ritrovare la mia infanzia, a Liverpool tra gli otto e gli undici anni. Sono stati gli anni più belli della mia vita, di incantevole felicità e pienezza. Un vero paradiso, cominciato con la morte di mio padre. Io lo odiavo perché era un uomo brutale che mi terrorizzava e pestava mia madre davanti a me che così piccolo non potevo difenderla. Il periodo senza mia padre stato per me meraviglioso, anche se la mia famiglia era povera, priva di tutto, ma c’era questo grande senso di amore e di continua scoperta. Poi però anche il paradiso è finito: in un giorno qualunque dei miei undici anni, quando su un’impalcatura di fronte a casa nostra ho visto un giovane muratore a torso nudo. Ho provato un’emozione violenta che mi ha fatto precipitare nell’orrore…”
Già nei due film precedenti Terence Davies aveva rivelato il suo grande intimismo, la sua struggente composizione di forme, colori e ricordi. In The Long Day Closes, passato purtroppo a Cannes senza alcun riconoscimento, egli arriva alla perfetta astrazione di qualsiasi meccanismo narrativo: non una storia, non un racconto che si evolve, solo le suggestioni delle immagini e delle voci della sua infanzia nell’Inghilterra degli anni 50. Una nostalgia che diviene sensibilità estetica in un’opera radicalmente sincera ed evocativa. Il peso della sua condizione di omosessuale (portato alla disperazione e all’angoscia della morte in T.D. Trilogy, 1973-1983) si è qui placato in una stagnante perfezione stilistica che, riprendendo le atmosfere domestiche, la coralità sonora di Voci lontane…sempre presenti (1988), sublima nel rigenerarsi della memoria un passato che non sono solo dolci ricordi personali, ma frammenti veraci di una storia sociale su cui forgiare e rivitalizzare le amarezze del presente.
“Gli anni che faccio rivivere in The Long Day Closes sono stati davvero dolci ed indimenticabili. Ciò che resta nella memoria, ciò che la evoca per me sono i suoni, le voci, che nel film hanno un ruolo predominante. I luoghi canonici di allora erano la casa, il quartiere, la scuola, la chiesa. In quei giorni avevamo il tempo per tutto questo, per stare insieme, e poi per divertisi, per cantare, per andare al cinema. Era un mondo diverso che aveva il senso della comunità e della decenza, che non era né materialista né rapace come adesso”.

ezio leoni movieconnection.it

Raramente si può vedere un cinema così autobiografico come quello di Terence Davies, che, a cominciare dalla splendida, straziante The Terence Davies Trilogy, non è mai riuscito a staccarsi dai ricordi della propria vita. Il lungo giorno finisce di fatto è il sequel dell’ottimo Voci lontane… sempre presenti (…)
Qui Davies rievoca, attraverso un alter ego, il piccolo Bud, la sua adolescenza, il periodo per lui più bello della sua vita. Ora la madre colora la vita familiare, trasmettendo a tutti un palpabile senso di serenità, che trova la sua esaltazione nel canto (più di 50 tra canzoni e musiche!…): un momento di sublimazione corale in cui tutti sfogano le loro tensioni. Per Bud è uno stato di pacatezza mai più ritrovato in seguito e che avrà un traumatico, irreversibile stop quando sentirà il suo cuore in subbuglio alla vista dell’atletico operaio. D’altra parte, Davies ha più volte dichiarato – in barba ad ogni discorso di orgoglio gay – che ha sempre sentito la sua omosessualità come una disgrazia, un’ineluttabile condanna per liberarsi della quale ha vanamente pregato Dio. Ma in realtà Bud non è mai veramente felice, venato com’è di un senso di malinconia e di solitudine; tutto trova in lui una delicatissima cassa di risonanza: la repressione della dura vita scolastica, le angherie dei compagni, l’ossessiva educazione cattolica, l’amatissimo cinema che più di ogni altra cosa esalta le sue fantasie.
Frammentato in flashback collegati da semplici associazioni, l’universo, un po’ claustrofobico, del film è offerto in uno stile rigoroso ma ostico. Le immagini – con una gamma coloristica che esalta il marrone, come le fotografie dell’epoca, e la mancanza di profondità che rimanda alle iconografie cristiane così presenti nell’immaginario di Bud – riescono a creare magicamente un passato nostalgico che, al di là del profondo senso di colpa che emerge, ha una sua intima poeticità e dà sottili, raffinate emozioni.

Vincenzo Patanè – culturagay.it

…Le incertezze, i dubbi del bambino che cresce sono affidati non ad un’analisi di coscienza puntuale parola per parola ma ad un flusso di immagini che, nel breve arco di tempo concesso ad un’ opera cinematografica deve condensare una metamorfosi radicale e riuscire a comunicarla debitamente al pubblico. Terence Davies, inglese di Liverpool nato in una famiglia operaia, è forse l’autore britannico più radicale (…), più vicino agli echi letterari di Dickens e alla fusione tra musica/canzone e cinema.
Il lungo giorno finisce è il resoconto biografico dell’infanzia di Davies. Vi si trovano incastonate in una brillante stesura poetica la figura materna benevola e accogliente il cui tenero canto illumina anche le notti più buie, la latente omosessualità del protagonista ed il dolore sordo che genera tale condizione di diversità inespressa, l’educazione cattolica controriformista che permea di sé anche l’stituzione scolastica, la mancanza del padre e il vuoto incolmabile che suscita il silenzio dell’assenza nel regista. Il film genera quindi ambivalenti reazioni nello spettatore che si sente proiettato in una fase di trasfigurazione, di crescita: l’infanzia che sfugge, con il suo caldo lenzuolo di protezione famigliare, di feste, di regali, di piccoli piaceri innocenti e l’adolescenza che prepotente si insinua nelle pieghe dell’io del protagonista con segnali fugaci e inquietanti. Incubi notturni, oscure zone d’ombra, nuvole che oscurano il cielo tendono a rappresentare la fine di una fase e l’inizio di un’altra, il tramonto del benevolo riposo e l’inizio delle fatiche quotidiane.
Inestricabili rispetto all’apparato figurativo, i brani musicali sono parte integrante dell’opera e rendono il tono poetico ora struggente, ora malinconico, ora severo, ora idilliaco. Brani degli anni ’50, canzoni di chiesa e di musical, spesso interpretazioni a cappella della madre di Terence forniscono un ampio repertorio musicale senza il quale l’opera perderebbe metà del suo fascino. Il regista non ha paura nemmeno di riprodurre integralmente la canzone di Arthur Sullivan che dà il nome al film, in un finale spiazzante e liricissimo che ci tiene incollati allo schermo/finestra, assorti davanti ad un cielo nuvoloso.

Matteo Ruzza – pellicolascaduta.it

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