La casa della gioia

Terence Davies

New York, inizio ‘900: la zitella squattrinata Lily Bart è innamorata dell’avvocato Lawrence che però non può garantirle quella stabilità economica bramata per entrare a far parte della buona società. Inseguendo il suo sogno, Lily colleziona debiti, storie d’amore fallimentari (il marito della sua migliore amica) e umiliazioni… Davies si accosta a un modello di cinema in costume elegante e didattico, per contraddirlo, riscriverlo e superarlo. Amaro e gelidamente appassionato.

The House of Mirth
USA 2000 – 2h 15′

Dal più celebre romanzo di Edith Wharton, The House of Mirth, un’operazione nuova per il regista inglese di Liverpool Terence Davies, elegiaco narratore della sua biografia d’adolescente sognatore vessato (Terence Davies Trilogy, Voci lontane sempre presenti), celebre tra gli habitués dei festival, meno noto al pubblico delle sale. Si accosta a un modello di cinema in costume elegante e didattico, fissato dai successi di James Ivory, per contraddirlo, riscriverlo e superarlo. È la storia di Lily Bart (la Gillian Anderson di X Files), nei primi del ‘900, signorina dei nuovi quartieri residenziali di New York, ancora nubile. Protetta da una zia ingenerosa che poi l’abbandona, respinta da un amante che non si reputa sufficientemente ricco (il fulvo Eric Stoltz), vive l’arbitrarietà del “favore” e dell’amicizia in una società neoborghese dove una donna non è nessuno se non al seguito di un uomo (sicuri che oggi non ci riguardi più?). Davies concede libertà di espressione ai suoi attori, dilatando i tempi, descrivendo le strategie, ottenendo finalmente una verità critica che Ivory se la sogna. Storicamente istruttivo. Idealmente incisivo.

Fulvio Danese – Il Giorno

Terence Davies riesce ad essere se stesso (e quindi poetico, aspro, originale) anche affrontando il romanzo della Wharton il cui titolo enigmatico e contraddittorio rispetto alla storia pochissimo gioiosa che racconta è un concentrato dell’amara ironia che scorre nelle sue pagine (viene dall’Ecclesiaste). E ci dà un piccolo gioiello. Anziché scegliere la strada della fluidità narrativa, Davies disarticola le pagine del bestseller d’epoca, ne estrae altrettante scene concluse, teatralizza la cornice e fa di ogni quadro una tappa emblematica, mai gratuita, della caduta dell’innocente Lily Bart. Che cade, fino alla sua tragica fine, perché bella, elegante, ben abituata e improvvisamente povera, si ritrova a vivere secondo regole che non riesce a rispettare, virtuosa ma troppo spontanea, incapace di adeguarsi all’idea di un matrimonio di interesse ma anche a quella di un rigore cui non è usa, troppo ben educata per riuscire a vivere lavorando, troppo bella per non essere pericolosa, troppo ingenua per non attirare gli avvoltoi. Come in un altro bel film ispirato della Wharton, L’età dell’innocenza, anche qui la storia suggerisce letture che vanno al di là del testo, e il gioco degli interdetti sociali, dei tabù amorosi, delle regole mafiose di un mondo andato in frantumi, ci tocca per quello che anticipa di altri tabù e altri interdetti…. Davies si conferma un autore anche lavorando al servizio di un mondo lontano da lui..

Irene Bignardi – La Repubblica

…Sontuoso ed elegante ma anche freddo e a tratti didascalico, il film di Davies racconta le ipocrisie di una società perbenista e fondamentalmente cinica, dominata da individualismi e dalla necessità dell’apparenza. Il denaro è ciò che regola i rapporti interpersonali e finisce con il prevaricare perfino i sentimenti, riducendo i protagonisti del dramma a figure vuote e grette che rivendicano uno status sociale prima ancora che un’affettività sincera e disinteressata. Buona prova degli attori (in modo particolare di una sorprendente Gilian Anderson e di un Dan Aykroyd alle prese con un ruolo insolito) e il tocco di Davies regala alcuni momenti di ineccepibile maestria registica (come la dissolvenza incrociata tra la città piovosa e il mar Mediterraneo accompagnata dalla musica di Mozart)…

longtake

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