Most Beautiful Island

Ana Asensio

Luciana, una giovane donna immigrata a New York, si sforza di sbarcare il lunario mentre tenta di sfuggire al proprio passato. Come ogni giorno, affronta una serie di problematiche e imprevisti quando, prima che la sua giornata sia finita, si ritrova inavvertitamente protagonista di un crudele gioco in cui vengono messe a rischio delle vite per l’intrattenimento perverso di pochi privilegiati.

Spagna/USA 2017 – 1h 20′

 TORINO – Se c’è una soddisfazione che ancora sono in grado di fornire i festival del cinema, è di certo la sorpresa di entrare in una sala ed aprirsi alla visione di un’opera prima, in questo caso di una giovane attrice spagnola, la quale, con pochi mezzi e pochi soldi ma una solida idea, decide di portare sullo schermo una vicenda che l’ha direttamente coinvolta, pur con le debite distanze, nel momento in cui ha deciso di trasferirsi da Madrid e tentare la fortuna a New York.

Questo incipit, che racchiude in sé necessariamente una valenza drammatica dovuta alle immaginabili difficoltà intercorse, per Ana Asensio diventa invece a tutti gli effetti un thriller fermamente perturbante, dal fosco ammorbo horrorifco che si espande nell’inconsapevolezza di quanto dovrà accadere in quella notte e in quel luogo dove si dovrà per forza concludere la vicenda al centro del suo film.
Ana Asensio scrive, dirige, produce e interpreta Most Beautiful Island e piega i pochi mezzi a sua disposizione con una forze espressiva invidiabile: a partire dal suo corpo stanco, sconvolto e poi terrorizzato, immerso nel luccichio glamour di Manhattan e tutte le sue contraddizioni che vedono, tra le numerose possibilità, persone riuscire a malapena ad ottenere del cibo per sopravvivere e una classe di ricchi pronti a servirsene per una scossa di perverso godimento. La Asesio filma prima di tutto un’intima esplorazione della solitudine, dell’identità di un corpo solo, angosciato e abbandonato nella metropoli e della scoperta irrimediabile a cui la disperazione l’ha costretta.
Cosa significa vivere il sogno americano da parte di un giovane immigrato europeo, senza soldi, con grandi speranze, difficoltà con la lingua, e spesso con il visto in scadenza? “Significa iniziare a sopravvivere con poco o niente e attraverso lavori saltuari. Una sensazione di costante disperazione e fragilità emotiva e psicologica. Volevo trasmettere allo spettatore come se stesse vivendo una situazione reale e immediata, carica di tutta l’ansia e la vulnerabilità che ho vissuto io in quei momenti.”
E visivamente questo insieme di sensazioni vengono rappresentate alla perfezione attraverso un utilizzo accorto e non furbo della pellicola super 16mm, la combinazione perfetta di attori professionisti con attori presi da quei luoghi stessi, e lunghi piani sequenza senza stacchi di montaggio. Girato in una sorta di tempo reale frastornato, inquieto e trepidante, in un contesto ideale per una raffigurazione che dialoga con un onirico deviato e ossessivo (da qui il titolo che con dolcezza estrapola una spietata ironia).
Un film realmente indipendente, la cui gestazione ha richiesto quattro anni per essere finanziato e portato a termine e proprio per questo di alto valore esemplificativo per un cinema (anche indipendente) che sempre più è carico di denaro e povero di idee. Qui la tensione è il vero soggetto della narrazione e ogni inquadratura racchiude in se un elemento che rimanda a un’emozione distorta, inquietante, pericolosa ed ambigua. La protagonista, già al limite delle sue possibilità di sopravvivenza, cerca qualunque espediente per campare, e non è difficile quindi non considerare che, per una volta, la possibilità di guadagnare qualche soldo grazie alla bella presenza possa costituire una fortunata occasione. Da quella scelta però si concretizza a tutti gli effetti un incubo, l’uscita dal quale è per lo più affidata a una sorte che non ha niente a che vedere con una prospettiva razionale o una capacità del proprio ingegno. Un segmento che ha i contorni dell’allucinazione e la tangibile corporeità della morte, della disperazione lancinate di un ultimo urlo soffocante.
La regista fa tesoro di preziosi insegnamenti di coloro che l’hanno influenzata per il suo percorso cinematografico, tra i quali ritroviamo John Cassavetes, i fratelli Dardenne, Krzysztof Kieślowski, Andrea Arnold e, soprattutto in riferimento a questo film, Cristian Mungiu. Si percepisce la loro presenta proprio nella sicurezza nell’affrontare il lungo momento di massimo orrore fisico e psicologico e nel tenero indugiare dello sguardo nel finale, sfumato nella notte e nelle nebbie dei fumi prodotti dal sottosuolo newyorkese. Il respiro sembra sonoramente prendere il sopravvento all’incessante battito cardiaco e la città, coi i suoi rumori di fondo, ormai è ridotta a uno scenario livido senza geometrie.

Alessandro Tognolo – MCmagazine 45

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