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2007

trimestrale - cinema, cultura e altro...

n° 19
Reg.1757 (PD 20/08/01)

pag.4

   Non appare casuale che proprio in Francia, paese che per primo ha visto manifestarsi una riflessione sul cinema e sul suo linguaggio che ne ha favorito la collocazione in una dimensione diversa da quella di semplice intrattenimento per le masse, sia stata realizzata una bellissima mostra curata da Philippe Alain Michaud che affronta il problema del rapporto tra il cinema e le altre arti, attraverso una rilettura dell’arte del XX secolo e contemporanea dal punto di vista del cinema. Una mostra  notevole non solo per la preziosità del materiale esposto, ma soprattutto per il lavoro di ricerca che ha supportato l’esposizione delle opere, ben documentato dal ricco catalogo.
L’assunto da cui i curatori sembrano essersi mossi potrebbe essere sintetizzato dall’affermazione di W. Benjamin secondo cui “è meno importante sapere se la fotografia e il cinema hanno a che fare con l’arte, che capire come essi modifichino la percezione che noi abbiamo di essa” (W. Benjamin - L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità).
Oggi, alle soglie del XXI secolo, stiamo infatti assistendo ad una massiccia migrazione delle immagini in movimento dalle sale cinematografiche agli spazi di esposizione, migrazione nata con la rivoluzione digitale e preparata da un doppio fenomeno: di dematerializzazione delle opere da un lato e di un ritorno alla teatralità della scena artistica dall’altro. Diventa pertanto possibile, per non dire necessario, ridefinire il cinema, al di fuori di quelle categorie entro cui è stato collocato per tutto il XX secolo. Le immagini in movimento hanno prodotto dei nuovi regimi di percezione e intelligibilità che si riflettono su tutte le arti cosiddette “statiche”, pittura, scultura, fotografia, ma anche architettura e design.
La mostra si propone, con efficacia, di dimostrare come il cinema, dopo aver “nutrito” le problematiche dell’arte del XX secolo, stia tuttora condizionando quelle del secolo entrante.
L’esposizione risulta divisa in due parti. La prima offre una stimolante panoramica di film concepiti non come narrazione, ma come sperimentazione linguistica: dagli esperimenti dada-surrealisti alla video-arte contemporanea, con lavori di Nam June Paik, Robert Longo, Peter Fischli e David Weiss, Marc Lewis, Chris Burden, Matthias Muller (per citare i più noti). Tutte opere concepite per essere proiettate non in una sala cinematografica, ma in spazi di esposizione, su schermi, pareti, soffitti, pavimenti; opere che hanno quindi modificato la nostra modalità di visione, da quella statica all’interno di una sala buia per la durata prestabilita del film in una rievocativa semmai delle passeggiate davanti ai “panorama” dei tempi del pre-cinema.

Robert Longo
Men in the Cities
(Triptych Drawings for the Pompidou)
1980-1999

La seconda parte è divisa a sua volta in sezioni, i cui titoli significativi (défilement – projection – rècit – montage) indicano il percorso di indagine seguito su come i concetti di destrutturazione e di movimento, che stanno alla base del cinema, siano da considerarsi quali principali fattori di ricerca di una nuova concezione dell’arte.
Si possono così ammirare gli esperimenti degli artisti che, negli anni ’60-’70, nel sottolineare la materialità fisica del film e nel dissociare i suoi elementi (proiettore – macchina da presa – luce – schermo) hanno messo in evidenza i limiti del mezzo come erano stati definiti nel corso di un secolo.
Utilizzando un proiettore modificato, a cui ha tolto l’otturatore, Paul Sharits produce un flusso di colori senza definizioni né contorni. I film dipinti direttamente sulla pellicola di Stan Brakhage trasformano l’evento della proiezione in una rivelazione del trattamento plastico della superficie.
Nell’opera di Anthony McCall Linea che descrive un cono dei coni di luce vengono proiettati senza schermo in un ambiente fumoso che trasforma i raggi luminosi in forme scultoree nel momento in cui gli spettatori entrano nel cono di luce.
Zen for film di Nam June Paik del ’64 è la proiezione di un fotogramma non impressionato su una parete bianca sulla quale lo spettatore può contemplare la polvere che gradualmente si accumula, i graffi che si creano sulla pellicola: sabbia di un giardino zen messo in verticale...

Fernand Léger
Le Ballet mécanique
1923-1924

Richard Serra
Hand Catching Lead
1939

Così come nel cinema la proiezione in successione dei fotogrammi (24 al secondo) produce l’illusione della continuità, la partitura regolare delle superfici di Josef Albers e Barnett Newman o l’adozione di formati longitudinali di Donald Judd permettono di mettere in movimento o di dinamizzare le superfici, di produrre fenomeni di sviluppo discontinuo che richiamano all’esperienza cinematografica indipendentemente dall’apparato tecnico del cinema. La ripetizione seriale di una forma (Warhol) cambia la forma stessa in movimento, collocandola in una dimensione non più statica, ma dinamica, introducendo quindi anche il concetto di durata temporale.

Andy Warhol
Ten Lizes
1963

D’altra parte in tutta l’arte contemporanea l’opera non è più concepita come un oggetto chiaramente delimitato, ma piuttosto come uno sviluppo continuo che richiede uno spazio circostante e che allo stesso tempo fa appello al parametro del tempo.
Per Ejzenstejn il montaggio comincia all’interno del fotogramma. Il rapporto tra piani e tra sequenze è un’espansione del lavoro dell’inquadratura. Il cinema nel suo insieme non è che il culmine di queste procedure di assemblaggio che attraversano la storia dell’arte come quella della letteratura e di cui Ejzenstejn ritrovava le tracce nei volumi architettonici del Partenone, nei paesaggi di Toledo dipinti dal Greco o nelle scene di battaglie descritte da Puskin.
Il taglio delle superfici dipinte, i contrasti dimensionali degli oggetti dipinti, i giochi sulla trasparenza e l’opacità e la sovrapposizione dei piani, tutti possono essere interpretati alla luce del dispositivo filmico come effetti di montaggio: i collage cubisti, costruttivisti e surrealisti, gli assemblaggi pop o postmoderni creano una molteplicità di immagini o di frammenti di immagini in una sequenza unica, mostrando in simultaneità ciò che il cinema mette in successione e producendo così un equivalente statico della dinamicità e della sequenzialità dei fotogrammi.

Nonostante lo spettro limitato della sua storia, il cinema viene interpretato per la prima volta come un modo per ripensare le immagini, non più a partire dai concetti di unicità e immobilità, secondo il modello Winkelmanniano, che per tutto il XX secolo ha condizionato l’esibizione delle opere, ma sulla base delle nozioni di mobilità e molteplicità : la mostra va così a coprire un vuoto teorico di fatto esistente, stimolando, mi auguro, un nuovo filone di ricerca.

Cristina Menegolli         

Le mouvement des images
Parigi, Centre Pompidou (Aprile 2006 – Gennaio 2007)