giugno 2017

periodico di cinema, cultura e altro... ©
 

n° 42
Reg.1757 (PD 20/08/01)

 
 

  La "notizia" (di apertura) è certamente una ed è "di parte". Il circolo The Last Tycoon, editore di questa rivista, oltre ad essere l'associazione di cultura cinematografica "principe" in Padova, non si limita ora ad adoperarsi come gestore di sala d'essai (il Lux) ma si cimenta come casa di distribuzione cinematografica indipendente.
Due i titoli subito immessi nel circuito nazionale: Mister Universo (9 marzo) e Tanna (4 maggio). Il primo, firmato da Tizza Covi e Rainer Frimmel, è l'ideale continuazione di Non è ancora domani - La pivellina e, partendo dall'ambito circense, costruisce un toccante road-movie, intriso di ingenua superstizione, che accompagna la crisi di Tairo, domatore di leoni, alla ricerca di sicurezze per il suo futuro e di un prezioso portafortuna...
A Mister Universo, Menzione speciale a Locarno, si affianca Tanna, vincitore della 30a Settimana della Critica a Venezia e candidato quest'anno all'Oscar come miglior film straniero. Un mondo lontano (un'isola dell'Oceania), una conflitto tribale, una storia d'amore "impossibile" che costringe i due innamorati, Wawa e Dain, ad affrontare la contrarietà delle famiglie a confrontarsi con l'irrisolubile conflittualità  tra le ragion personali e  sociali. Alla forza del racconto corrisponde quella delle immagini: i lapilli del vulcano che invadono lo schermo, l'avvolgente manto verde della giungla... La "scommessa" cinematografica di Bentley Dean e Martin Butler (due documentaristi che debuttano nella fiction) punta a toccare il cuore del pubblico ma anche a soggiogarne lo sguardo.
Troppo affollato il panorama delle nuove distribuzioni indipendenti? Troppo occluso l'imbuto del circuito delle sale? La risposta passa per l'attenzione e la disponibilità del pubblico d'essai, per l'aplomb propositivo e per la tenacia della nuova Tycoondistribution.

 



 

  Già a partire dal nome, quel Festa anziché Festival, tornato - così com’era nelle intenzioni originarie di Walter Veltroni - con la direzione artistica di Antonio Monda nel 2015, l’evento cinematografico della capitale vuole essere una celebrazione tout court del cinema e dunque, allontanandosi - giustamente, visto il collocamento ravvicinato con la Mostra di Venezia e il Festival di Torino - da uno spirito di ricerca puramente cinefilo, esaltare la mondanità, l’incontro e la popolarità insiti nello spettacolo come forma di intrattenimento connaturata della dolce vita romana. E visto il riscontro caloroso e assai generoso da parte dei cittadini che non hanno mancato di riempire ogni ordine di posto nelle sale, c’è da credere che la formula sia effettivamente azzeccata. Secondo le parole del direttore “non si trattava, né si tratta, di una semplice differenza lessicale, ma della volontà di celebrare la settima arte attraverso film, incontri, retrospettive ed eventi, uscendo dallo schema del concorso, della priorità attribuita al red carpet e all’esclusiva della prima mondiale. Ogni scelta operata nasce da una riflessione sul senso profondo di cosa rappresenti il linguaggio delle immagini in movimento, e su come lo spettatore possa essere arricchito da questi dieci giorni di celebrazione”.
Ad osservare con attenzione la sostanza di questa Festa però, è necessario un discreto sforzo per rintracciare il senso formale che ha partorito questo collage di film, tributi, omaggi, incontri, retrospettive (a registi: Valerio Zurlini, ad attori: Tom Hanks, a generi: America Politics), pre-aperture, sezioni parallele e chi più ne ha più ne metta. L’idea è probabilmente quella di cercare di accontentare tutti, ma proprio tutti, ed in tal senso bisogna riconoscere che, scorrendo il programma, ogni spettatore, per età, genere, gusti, poteva sicuramente incontrare pane per i suoi denti. A dimostrazione di quando detto bastava infatti banalmente percorrere l’Auditorium Parco della Musica (sede centrale del festival) per incontrare ogni tipo di pubblico, dalle scolaresca delle scuole elementari, ai pensionati, fino al critico più esigente.
Una celebrazione di questa portata non può prevedere di conseguenza ambiti di impavida sperimentazione ma sfruttando la nobile arte del compromesso, la selezione ufficiale ha portato sugli schermi romani corpose anteprime hollywoodiane prima della loro uscita in sala (il vincitore dell’Oscar Moonlight, Snowden, Manchester by the Sea, The Birth of a Nation e Florence) e qualche autore che non ti aspetteresti come Andrzej Waida, Werner Herzog e Mia Nishikawa.
Tra il piacere splatter dell’horror coreano Train to Busan di Yeon Sang-ho, amarissime delusioni come l’omaggio al wuxia in tre dimensioni Sword Master 3D di Derek Yee, la poetica animazione de La tartaruga rossa prodotta da Toshio Suzuki e Isao Takahata per lo Studio Ghibli ma diretto dal francese Michaël Dudok de Wit, ma non è nemmeno mancato lo stupore per l’opera inattesa, proveniente da molto lontano che, senza grande clamore, imprime un segno indelebile lungo ben oltre la durata del festival. Goldstone dell’australiano Ivan Sen ha infatti incentivato ancora di più il senso di sfiducia verso molto cinema popolare contemporaneo, marcando l’urgenza, mai sufficientemente ribadita, di cercare ripetutamente altrove per non perdere l’opportunità di lasciarsi sfuggire alcune voci così affascinanti.
La Festa di Roma ha ancora molta strada da percorrere per maturare una visione del cinema coerente e non solo fastosamente rievocativa.

Alessandro Tognolo

 

  Nulla è cambiato, nella forma, per fortuna. Il Torino Film Festival, tra le polemiche con l'amministrazione, tra i tagli alle spese e i conflitti con altri festival, conferma la squadra dell'anno precedente e gli ottimi risultati. Cambia ovviamente il contenuto, e, di nuovo, c'è n'è per tutti i gusti ed è qui che il fiuto della direttrice e dei suoi selezionatori si fa sopraffino ma mai meramente elitario o pressappochista. Per fortuna.
Strutturato come sempre in maniera labirintica tra le solite numerose sezioni, necessarie per contenere una “mole” di film di altrettanti generi, il TFF 34 rifulge di dirompente cinefilia e assicura con fermezza di poter recuperare quanto di meglio circola in giro per il mondo, con uno sguardo al passato e uno al futuro e una naturale, curiosa inclinazione per la soggettività più spinta e originale.
Non a caso quindi, ogni percorso preconfigurato da parte dello spettatore finisce per prendere traiettorie inattese: posti limitati nelle sale quasi sempre stracolme, file chilometriche, condizioni atmosferiche impervie e orari impossibili, portano inevitabilmente a scelte nuove, nuove visioni, sviluppi della visione che si diramano nella storia del cinema, nella sperimentazione, nella realtà, nei formati più arditi e perché no, anche nella grande anteprima di turno.
Mai come quest’anno, l’estremo oriente ha imposto un peso determinate e decisivo nelle opere presentate nelle diverse sezioni del festival: non tanto per la quantità, visto che i film orientali non spiccavano certo per numero, quanto per lo scarto, a volte abissale, espresso dalla cifra estetica e narrativa della loro messa in scena.
Dopo l’innegabile Leone d’Oro a Venezia 73 per The Woman Who Left, il TFF ha presentato in Italia il precedente capolavoro di Lav Diaz (la prima mondiale fu a Berlino) A Lullaby for the Sorrowful Mystery, otto meravigliose e indelebili ore in cui abbandonarsi nelle mani del talento del maestro filippino, nelle quali Diaz racconta l’epopea del connazionale rivoluzionario Andrés Bonifacio y de Castro. Lo stile inconfondibile del regista è una volta di più la dimostrazione di come il suo cinema sia la fonte inesauribile di una forza rivoluzionaria e incantatrice che in qualche modo stabilisce un limite così marcato da rendere i film, così per come siamo abituati normalmente a vederli, un po’ più estranei, insipidi e prevedibili.
Ma le anomalie, si sa, non mancano mai e come è ormai abitudine da diversi anni, il rapporto confidenziale instaurato dal festival torinese con Sion Sono è la garanzia di ritrovare un autore oltre ogni prevedibile canone. Spiazzante, immenso, geniale, Sono è l’essenza stessa del cinema, nella sua riproducibilità e nella mise en abîme che coinvolge il farsi e disfarsi dei sui film, dei suoi personaggi, e le numerose possibilità delle vite che li coinvolgono. Con Antiporno il regista nipponico rivisita il Roman Porno, una serie di film di genere prodotti dalla Nikkatsu negli anni Settanta, e ne esce un capolavoro assolutamente anarchico e libertario nonché uno dei suoi film migliori degli ultimi anni.
Anche la giuria del concorso, presieduta da Ed Lachman - artista e direttore della fotografia per registi come Haynes, Soderbergh, Altman, Sofia Coppola, Herzog, Wenders, Schlöndorff, Godard - ha premiato l’unico film dell’estremo oriente del Concorso internazionale lungometraggi, assegnando i premi come miglior film e migliore sceneggiatura del 34° Torino Film Festival   all’opera prima The Donor, del regista cinese Qiwu Zang. La motivazione ufficiale della giuria rende pienamente merito alla composizione magnificamente orchestrata di questo film: “Siamo onorati di assegnare il premio a un film così meravigliosamente penetrante e così poetico nella narrazione, nella performance, nella comprensione del mondo in cui proviamo a vivere. Pensiamo di aver trovato una nuova voce del cinema cinese che ci arricchirà tutti”.
Da un’opera prima ad un altro nome filippino ormai riconosciuto: Brillante Mendoza con Ma' Rosa ritorna a Manila per inseguire affannosamente la lotta per la sopravvivenza di una famiglia di disperati. E di disperazione sempre si parla in Ta’ang di Wang Bing, in cui il regista mette in evidenza un fatto sconosciuto: l’esodo verso la Cina della minoranza etnica birmana dei Ta’ang. Due differenti visioni della realtà capaci di forzare l’impalpabilità dello schermo e l’esausta riproposizione di facili scorciatoie verso il consenso.

Alessandro Tognolo

   È un vero peccato che solo i frequentatori dei Festival possano vedere ciò che oggi offre la cinematografia filippina, che vanta autori come Brillante Mendoza e Lav Diaz , i cui film non trovano purtroppo un'adeguata distribuzione. Nemmeno il Leone d'oro a Venezia è finora servito a far circolare il bellissimo lavoro di Diaz The Woman Who Left.
Gli eccellenti selezionatori del TFF, che, come sempre, sanno fare delle scelte capaci di accontentare i gusti più svariati del pubblico, con offerte di film spesso di ottimo livello, hanno inserito nella sezione Festa Mobile dell'edizione 2016 due film filippini, entrambi molto interessanti: A Lullaby for the Sorrowful Mystery di Lav Diaz (2016, già vincitore dell'Orso d'argento a Berlino) e Ma' Rosa di Brillante Mendoza (2016, Palma d'oro a Cannes 2016 per la migliore interpretazione femminile), due film che raccontano e denunciano la storia e le condizioni attuali di quel paese, pur con linguaggi molto diversi: l'uno onirico e rarefatto, l'altro diretto, realistico al massimo.

Cristina Menegolli    

 

  Brusca sterzata della giuria della Berlinale quest'anno. Venendo meno ad una consolidata tradizione di "political correctness" e incoraggiamento al cinema impegnato e progressista (Fuocammare) regala l'Orso d'oro ad un eccentrico film ungherese, On Body and Soul, non privo di qualità ma estremamente arty, surreale e ingenuo allo stesso tempo, negandolo al vincitore annunciato della vigilia (anche in considerazione delle relativa modestia della griglia di partenza) l'Aki Kaurismaki di The Other Side of Hope ("solo" premio per la regia).
Ma questa è solo la più grave delle molte incongruenze del palmares; dal Gran Premio della giuria al modesto - quasi documentario - film di Alain Gomes Félicité al Premio Alfred Bauer "per il film che apre nuove prospettive" assegnato a Pokot di Agnieszka Holland, regista polacca che è sulla breccia da quasi trent'anni e il cui film(anche se non brutto) è certamente uno dei più mainstream e tradizionali della rassegna (ma qui deve aver agito il messaggio fortemente ecologico-animalista...).
Il peggio però è stato raggiunto con l'Orso d'argento per il miglior attore a Georg Friedrich in Helle Nachte, interpretazione (e film)di sconcertante modestia e ovvieta'. Unica spiegazione,quota dovuta al cinema tedesco padrone di casa... Azzeccati invece gli ultimi due premi di consolazione: quello per la migliore sceneggiatura al l'ottimo A Wonderful Woman del cileno Sebastian Lelio, ancora meglio riuscito del precedente Gloria, e quello per il "rilevante contributo artistico" (ci si riferisce al montaggio) assegnato per Ana non amour al regista rumeno Carl Peter Netzer, già vincitore to qui a Berlino nel 2012 con Il caso Kerenes. Coraggio, il festival ritorna tra un anno...

Giovanni Martini

 

 (A.T.) Mai come quest’anno, il Far East Film Festival, giunto al diciannovesimo anno di vita, ha sperimentato l’implacabile peso del tempo. Ogni relazione è soggetta a una trasformazione che trascorre di pari passo con lo svolgersi della ciclicità delle stagioni, nondimeno il rapporto imprescindibile della direttrice che conduce verso est il nutrimento visivo di appassionati, curiosi e addetti ai lavori, ha subìto modificazioni (a/e)ffettive, traguardi inattesi, intermittenze di gusto e passioni insaziabili. Se da una parte lo spirito fondativo del festival rimane puro e incorruttibile verso un’idea di cinema - per forza di cose - culturalmente estraneo, il pubblico si dimostra sempre di più scisso in due: chi fedelmente riconoscere il valore autentico e unico nel panorama nostrano di una selezione altrimenti invisibile, e chi ottusamente relega un’intera area geografica in una manciata di generi oramai riconoscibili oltre che ammuffiti e dunque preferisce limitarsi al ben più decifrabili e rassicuranti credenziali che più o meno diffusamente invadono i nostri schermi.
Il cinema ha il pregio di poter interrogare il tempo e di poter decostruirlo nelle innumerevoli varianti di senso che lo contraddistinguono e allo stesso modo il festival del cinema - soprattutto del cinema più strettamente connesso al favore del pubblico e del ritorno economico di cui ha bisogno un interno, mastodontico, settore produttivo per alimentarsi - è il segno di un processo che dimostra l’andamento del gusto e l’interesse che conducono le masse a investire il loro tempo al cinema. Per questa ragione il festival di Udine rappresenta un momento essenziale per la cultura cinematografica - e di rimando anche verso un’esperienza culturale più generalmente estesa verso tutti i diversi ambiti della rappresentazione artistica, sociale e umanistica - tanto da divenire di anno in anno l’unico luogo realmente tangibile in cui studiare, godere e aggiornarsi sul mondo verso cui si addentra in maniera ragionata, diversificata e spettacolare. >>

da UDINE: Alessandro Tognolo e Cristina Menegolli

 

Anche la notizia di chiusura è "di parte". La nuova giunta padovana affidata a Giordani ha al suo attivo una vittoria che va ben oltre la messa all'angolo del tracotante avversario del centro destra (Bitonci era ridotto ormai ad una macchietta, ma il suo aplomb sulla cittadinanza lo ha portato comunque a raggiungere un 48,16% nel ballottaggio).  L'affermazione delle due liste targate Lorenzoni (Coalizione Civica e lista Lorenzoni sindaco) ha assunto un risultato politico che va oltre l'area patavina:  concetti come partecipazione e inclusione hanno saputo scardinare un'omologazione culturale in cui la sinistra dell'area PD sembrava irrisolubilmente impantanata.
L'entusiasmo contagioso di Arturo (curiosa la concomitanza con il gioco elettorale teletrasmesso da Gazebo) e i nomi nuovi che l'hanno circondato (brillano a giochi fatti le "quote rosa" di Chiara Gallani, Francesca Benciolini, Marta Nalin) hanno fatto passare il guado ad una cittadinanza che alla fina ha fatto dell'arancione il colore del suo futuro.

 

in rete dal 20 luglio 2017

 

 

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