L’isola dei cani

Wes Anderson

 

Giappone. Futuro. I cani vengono depositati su un’isola di rifiuti e un ragazzino vi approda in cerca del suo amato Spots. Premesse inquietanti, ma trattate con leggerezza e ironia. Wes Anderson torna alla stop-motion per dimostrare quanto l’umanità non sia all’altezza della pietà canina.

 

 

 

 

Isle of Dogs
Usa 2018 – 1h 41′

Dalla metropoli di Megasaki, governata dal terribile sindaco Kobayaski vengono cacciati tutti i cani (non solo quelle randagi) con la scusa di essere portatori di una pandemia e confinati in un’isola spazzatura. È qui che il ragazzo Atari arriva in cerca del suo amico Spots. Il cinema geometrico e surreale di Wes Anderson incontra la grande tradizione giapponese da Kurosawa a Miyazaki, diventando ancora più politico rispetto al passato. Un film in stop motion, che mostra forse come il cinema di questo autore, così esteticamente ossessivo e ripetitivo, trovi in questo modo la sua espressività migliore.

Antonio De Grandis – Il Gazzettino

La difficile impresa di realizzare una storia d’animazione con animali, Wes Anderson l’aveva già affrontata nel 2009 con il bel Il Fantastico Mr. Fox. Questa volta i protagonisti sono cani, si chiamano Rex, Boss, King e Duke e accompagnano il giovane Atari alla ricerca del’adorato cagnolino del ragazzino – Spots – tra le lande sperdute e fredde di un’ immensa isola nel Giappone del futuro, dove i cani sono stati messi in quarantena in seguito a un’influenza canina.
Cane, bambino, stop motion: ci ricorda qualcosa? Ma certo, Frankenweenie. Il primo poetico film d’animazione di Tim Burton, una saga sull’amicizia con protagonisti un nerd bambino e il suo piccolo cagnolino non del tutto morto, né del tutto vivo, Sparky. Quel pitbull ricucito insieme come il Dr Frankenstein è forse, ad oggi, il mostro più dolce della storia del cinema. Anderson aggiunge un capitolo, declina a modo suo, la realtà metaforica di questa complicità tra Canide e Homo sapiens. Quello che per Kindmann Wallace era il suo Gromit, per Charlie Brown il suo Snoopy, per Dorothy de Il mago di Oz il terrier Toto, sono i quattro cagnoloni arruffati di Anderson per il piccolo Atari. E Lassie! Da non dimenticare, perché assai presente nel film del cineasta americano. Il collie amico di una Liz Taylor bambina è stato per intere generazioni l’ideale sovrumano di altruismo e amore disinteressato, la metafora di compassione assoluta. Un po’ come gli eroi a quattro zampe di Anderson. L’industria dell’intrattenimento dominata da Disney e Pixar sull’antropomorfizazzione (da Bambi a Nemo) ha costruito un impero. Un film come questo di Anderson, invece, è costruito su una storia che potrebbe benissimo essere fatta con gli esseri umani. Se solo l’umanità fosse all’altezza della pietà canina.

Simone Porrovecchio – cinematografo.it

Bisognerebbe studiare l’ossessione di Wes Anderson per le teleferiche e i carrelli sospesi. Erano al centro di una scena spassosa in Grand Budapest Hotel, il film che aprì tra grandi applausi la Berlinale 2014. Tornano in Isle of Dogs – il film che ha aperto tra gli applausi la Berlinale 2018 – e hanno l’insistenza di una firma. Vero è che siamo in un’isoletta piena di spazzatura, in parte ordinata e pressata in cubi (sembra sia appena passato il robot spazzino Wall-E) in parte ammucchiata come capita. Vero è che per movimentare la spazzatura e portarla all’inceneritore i cartellini sono utili perché scaricano dall’alto. Ma il loro fascino cinematografico si deve al regista che venera e coltiva la simmetria (qui deve essere il segreto: la teleferica può muoversi senza guastare la composizione). Grand Budapest Hotel rendeva omaggio alla Mitteleuropa: grandi alberghi, personale in divisa con bottoni dorati, pasticceria raffinata, i quadri di Gustav Klimt e di Egon Schiele (…). Isle of Dogs è una magnifica giapponeseria: spade e samurai, teatro kabuki, taglio del pesce per il sushi, kimono, lottatori di sumo, tamburi, ciliegi in fiore, perfino un kamikaze con il suo aeroplano, infradito con il rialzo da portarsi con il calzino bianco, ideogrammi nei titoli di testa. Tutto minuziosamente fabbricato con l’animazione a passo uno.

Mariarosa Mancuso – ilfoglio.it

Wes Anderson, film dopo film, sta affinando una caratteristica del tutto peculiare che lo colloca ormai, a buon diritto, tra i Maestri del cinema contemporaneo. È praticamente uno dei pochissimi registi, ma sicuramente quello con gli esiti più produttivi di senso, in grado di saturare leinquadrature con una miriade di elementi senza però perdersi in un barocchismo o in un compiacimento fini a se stessi. Salvo poi, nell’inquadratura successiva, svuotare lo schermo per affidarlo a un singolo elemento in un ampio spazio. Nel suo cinema la messa in scena conta infinitamente di più della storia che però comunque non si limita a fare da tappeto narrativo per le immagini. Come in questo caso, dove si racconta di non di un ‘muro’ ma di qualcosa di analogo: un’isola dove poter allontanare gli indesiderabili. Partendo da un pretesto reale (l’influenza canina) ma fingendo che non sia possibile alcun rimedio in proposito e che quindi l’unica soluzione per ‘proteggersi’ sia il respingimento. Il contestualizzare tutto ciò in ambito nipponico non significa voler evitare un attacco diretto alla politica del proprio Paese da parte di Anderson. Così come è disceso negli abissi marini con Steve Zissou o ha viaggiato nel Darjeeling con i fratelli Whitman per poi addentarsi nei corridoi e nelle stanze del Grand Budapest Hotel, ora vuole nuovamente sperimentare facendosi accompagnare dal piccolo Atari…

Giancarlo Zappoli – mymovies.it

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