American Beauty
Sam Mendes – USA 1999 – 1h 57’

1999: 8 nomination / 5 oscar

 L'American Beauty è una rosa, una rosa rossa e snella coltivata con pignola passione da una moglie frustrata. La American Beauty è anche un'adolescente bionda, intravista dal protagonista tra le majorettes del college e subito idealizzata come una nuova Marilyn, ricoperta, nei sogni e nei desideri, di petali purpurei. Ma la bellezza americana è anche, sardonicamente, una vita suburbana agiata ma nevrotica, spenta, incolore, nonostante lo schermo rimandi i bagliori squillanti di un iperrealismo lynchiano. Sam Mendes film successivo in archivio (esordiente nel cinema, ma una gloria della scena, dopo gli allestimenti di Cabaret e The Blue Room) deve molto alla crudeltà di David Lynch, allo squallore che brulica sotto le vite americane. Prati, staccionate, belle case, notti nelle quali solitudini incattivite cozzano le une contro le altre: in tre davanti a un vecchio film di Reagan trasmesso in televisione; in tre a una tavola imbandita per la cena; i silenzi rotti dal rancore. Soli a fare fitness in cantina, soli a spogliarsi davanti a una finestra aperta, soli a spiare. Il più solo è il protagonista, quarantenne in crisi sedotto da un miraggio biondo che lo catapulta nella sua giovinezza, ormai patetica, fatta di "canne", velocità e Pink Floyd. Uno che sa che di lì a pochi giorni sarà morto (come annuncia la sua voce off all'inizio, in un omaggio a Viale del tramonto di Wilder), come se la sua morte fisica fosse solo la consacrazione di un ormai accertato decesso psicologico. «Mia moglie e mia figlia pensano che io sia un enorme perdente. E hanno ragione»: Kevin Spacy percorre il film sconfortato e sornione, ormai niente più di un'ombra che cammina. Il più sano, invece, è il ragazzo che riprende tutto con la telecamera e si innamora della ragazzina scontrosa e scontenta: «saremo sempre dei diversi, noi non saremo mai come l'altra gente». Forse la bellezza americana è anche questa; e la capacità, oggi, di fare un film classico, che affronta la morte barocca con il sogghigno del noir.

 Emanuela Martini - Film Tv

  Sembrerebbe tutto già visto: la critica della vita suburbana, il colletto bianco frustrato che si ribella ai miti e ai riti del quartiere residenziale e manda tutto al diavolo, la moglie ambiziosa e imperiosa che desidera solo mantenere le apparenze, la casa perfetta e le rose nel giardino davanti, la figlioletta ribelle in tempesta ormonale, i vicini strani, l'innamoramento dell'uomo adulto per la bella ragazzotta, e perfino il morto che parla - ricordate Viale del tramonto? - raccontando in prima persona la sua vicenda e le tappe che hanno portato alla sua fine. Sembrerebbe tutto visto e invece American Beauty (il nome di una sontuosa rosa rossa, quella che campeggia sui manifesti su un bel pancino adolescente, e un titolo carico di ironia) ha abbastanza stile e idee per rendere tutto originale, e si merita i riconoscimenti che, a partire dalle candidature ai Golden Globe, cominciano a piovergli addosso. La felice alchimia del film nasce da una sceneggiatura intelligente e ben scritta firmata da Alan Ball, noto sinora solo per degli sceneggiati tv, da una orchestrazione di rimarchevole eleganza e precisione ad opera di Sam Mendes (il regista teatrale inglese di Cabaret e di The Blue Room, al debutto cinematografico) e da un gruppo di attori eccellenti. Kevin Spacey non è mai stato così bravo, anche se resta sempre ambiguamente sgradevole. Annette Bening, nel ruolo di sua moglie, perfetta padrona di casa suburbana e agente immobiliare non particolarmente fortunata, tira fuori una notevole grinta autoironica... Senza arrivare agli estremi crudeli ed eversivi di Happiness da una parte o, dall'altra, alla contrastata nostalgia di Pleasantville, American Beauty traccia, in forma di favola nera, un quadro feroce e bruciante del perbenismo borghese, della crisi del maschio che invecchia, dei sogni sbagliati delle adolescenti, dello iato tra genitori e figli. Anche se in America i nemici del film, che ci sono (non si è trattato di un trionfo critico assoluto), lo hanno accusato di essere, come i confratelli film sulla crisi di Suburbialand, il prodotto degli incubi della mezza età di qualche tycoon hollywoodiano: Spielberg (visto che il film è prodotto da Dreamworks, anzi, è uno dei suoi primi prodotti veramente adulti)? Brillante e tragico, enfatico ed economico, commovente e sgradevole, American Beauty è invece un film fuori genere, tra satira, autoritratto e fantasia, che consente molte letture. Ed è, soprattutto, un film di stile. Dalla fotografia di un vecchio maestro come Conrad Hall (il cinematographer di Nick Manofredda e di Butch Cassidy), che costruisce fluidamente le immagini di una realtà così curata da sembrare finta, al montaggio impeccabile, a una sapiente costruzione delle inquadrature, American Beauty è certamente il miglior debutto dell'anno, e un film che, miracolosamente, si può anche rivedere continuando a scoprirvi cose nuove.

Irene Bignardi - La Repubblica


6 titoli per 10 nomination

CinemaEstate - LOGGIA AMULEA - PD luglio-settembre 2000
CinemaEstate in VILLA
CONTARINI Piazzola s.B. (PD) agosto 2000