Antonia
Ferdinando Cito Filomarino – Italia/Grecia 2015 - 1h 36’


   Non si dice nulla di nuovo nel segnalare che vi sono sempre più difficoltà per chi vuole esordire nel cinema italiano (...) Appartiene per fortuna all’ambito dell’eccezione il primo lungometraggio di Ferdinando Cito Filomarino, Antonia, che ha spinto Luca Guadagnino a produrre e a investire anche in tecnici di levatura internazionale, come ad esempio il magnifico direttore della fotografia di Apichatpong Weerasethakulfilm precedente in archivio, Sayombhu Mukdeeprom, che qui regala al film una iconica e materiale ‘secchezza’ visiva, un’asciuttezza di colori duri e cupi, con i volti spesso ripresi in controluce. Antonia si situa così in una sorta di terra di nessuno: produzione media senza essere ricca, anti-televisiva per concezione e per ritmo narrativo, popolata da volti poco noti, rigorosamente ellittica nel racconto. Sarà forse per questo suo volersi porre in disparte che il film s’è finora visto poco e che, anche al Festival di Torino, è passato quasi sotto silenzio, tra l’altro fuori concorso, mentre avrebbe meritato senz’altro la competizione internazionale.
Raccontando la vicenda di Antonia Pozzi, poetessa vissuta negli anni del fascismo e morta suicida a soli ventisei anni, Filomarino aderisce a un’esistenza inquieta e febbrile mettendola a confronto con l’atmosfera ovattata degli anni del regime. Tutto è rigido e sbiadito, con il padre di lei che marcisce nello studio e con i potenziali innamorati che sono guidati più da una forma esasperata di auto-controllo che dalla passione; mentre al contrario Antonia vorrebbe fortissimamente vivere, vorrebbe scardinare l’esistere, ma istintivamente e quasi senza intenzione, non sapendo che ogni smottamento d’equilibrio nella società del Ventennio è impossibile. Infatti, anche se non vi sono riferimenti diretti al regime fascista, Filomarino sembra alludervi con costanza, arrivando a disegnare una sorta di cappa invisibile che irrigidisce l’esistere e che rende, ad esempio, inaccettabile il trasporto con cui Antonia bacia appassionatamente una sua amica.
Niente scandali comunque in Antonia: la giovane viene sempre tenuta a freno e controllata, tanto che quando esagera sono proprio le persone che dovrebbero esserle più vicine a giudicarla negativamente (si pensi ancora all’episodio dell’amica che, una volta ricevuto il bacio da Antonia, scappa a gambe levate). Solo in montagna o nella solitudine della sua stanza la giovane ha l’impressione a tratti di trovare la piena espressione del vivere o, almeno, di potersi concedere di essere sincera con se stessa e con l’abisso esistenziale. I monti dalla vegetazione rada e dall’aria austera regalano un senso di vuoto, in cui la protagonista si muove come nei meandri della sua mente, mentre la stanza non è mai abbastanza accogliente e calda – grazie sempre alla fotografia di Sayombhu Mukdeeprom – e, anzi, è disperatamente ingannevole, come dimostra la mirabile sequenza in cui Antonia, piangendo, si dimena nuda sul letto mentre si sente come commento extradiegetico la meravigliosa canzone di Piero Ciampi Va. In questo frammento c’è la sintesi perfetta del film e la dimostrazione dell’ottimo lavoro fatto da Filomarino: si può e si deve osare, anche e soprattutto nel nostro ovattato sistema cinematografico..

Alessandro Aniballi - quinlan.it

   Occhi intelligenti e curiosi, una penna sempre tra le mani, il cuore colmo d'amore e voglia di condivisione: per il suo film d'esordio Ferdinando Cito Filomarino ha scelto di raccontare la storia di Antonia Pozzi, poetessa milanese morta suicida a soli 26 anni, le cui opere sono state pubblicate postume e giudicate tra le più importanti e preziose della letteratura italiana da intellettuali del calibro Eugenio Montale. Fragile e incontenibile, la figura della giovane poetessa affascina il regista, che grazie ad Antonia può raccontare anche la città di Milano durante il periodo fascista, fotografata nei suoi interni signorili, nei parchi pieni di verde, talmente ordinati e puliti da essere quasi opprimenti, a differenza dei monti delle Grigne, luogo dell'anima della poetessa, che amava scalarle e immergersi nel loro silenzio.

Valentina Ariete - movieplayer.it

   Vedendo Antonia, biopic a modo suo, assai lontano per aristocratico approccio e distacco da tante produzioni analoghe di cinema e televisione, della poetessa milanese Antonia Pozzi, si vede subito che il giovin signore un qualcosa da Luchino ha preso (Ferdinando è discendente per un ramo da aristocratica famiglia napoletana e dall’altro dai milanesi Visconti di Modrone, e dunque apparentato al più famoso dei Visconti novecenteschi). Era dai tempi di Il conformista di Bernardo Bertolucci che non si vedeva in un film una ricostruzione così credibile, perfetta e insieme non azzimata ma pulsante, viva degli anni Trenta, in questo caso dei Trenta nella Milano colta, borghese e nobile entre deux guerres, una ricostruzione dove non si sbaglia niente, non solo le tappezzerie-mobili-decori vari e gli ambienti, ma la stessa fisionomia e carnalità (o non carnalità) dei personaggi, le posture, gli sguardi, il tono di voce. Evitando, sempre, l’orrendo effetto sepolcrale-museale di tanti period movie nei quali tutto è finto, ogni costume come appena arrivato dalla sartoria, senza che si vedano mai i segni della vita, della realtà, della storia. Antonia è prima di tutto una lezione di stile ed eleganza vera. Quelle case, quei giardini (i meravigliosi giardini nascosti di Milano) respirano quanto i personaggi che vi si muovono, e già questo è, nel nostro cinema così plebeo, un miracolo. Antonia Pozzi nasce nel 1912, muore suicida, ingerendo un’overdose di sonniferi che le erano stati prescritti, nel prato dell’abbazia di Chiaravalle nel 1938. 26 anni di tormenti, incertezze, abissi interiori, senza mai però tragedie esteriori e chissà quali collassi psichici, piuttosto un’esistenza da perenne non conciliata con il mondo, e per motivi assai difficili da individuare. Solo dopo la sua morte il padre pubblicherà le sue poesie, che ne faranno una delle poetesse di rango del nostro Novecento, grazie anche a quanto di lei scriverà Eugenio Montale. In vita sembra una ragazza qualunque, talentuosa certo, ottima studentessa e poi ottima insegnante, ma con una irriducibile differenza dentro. Una figura elusiva, e il bello del film di Cito Filomarino è che ne rispetta il mistero, non sforzandosi mai di dare una spiegazione psicologistica o sociologistica al malessere di Antonia, mostrandocelo pudicamente, e basta. Con tocchi lievi e allusioni, con molti silenzi e scarne parole, si pensi solo a come il regista risolve la disperazione di Antonia che, dietro una vetrata liberty, sente il colloquio con cui il padre liquida ogni possibilità di una relazione tra lei e un suo insegnante. Succederà ancora, perché il destino di Antonia sembra quello di non essere mai riamata. Intorno a lei nomi che saranno famosi, Remo Cantoni, il maître à penser Antonio Banfi, il futuro poeta Vittorio Sereni. Eppure Antonia non riesce a farsi prendere sul serio e a pubblicare le sue poesie, restando un’incompresa, un’inconclusa, un’incompiuta. Non c’è mai dramma, né tantomeno patetismo in questo film, che sceglie l’osservazione partecipe ma da lontano del suo personaggio. Il tono dominante è quello del rigore, e del pudore. Si tende alla sottrazione, a rischio di sfiorare l’anoressia espressiva. La vita di Antonia Pozzi ci scorre davanti come implosa, più mostrata che rappresentata, in un understatement molto milanese, molto lombardo, poco italiano. Qui non si urla, non si esagera, non si piange, neanche quando si decide di ammazzarsi. Una milanesità che Cito Filomarino riesce a trasmettere perché evidentemente la conosce bene. Tutto è credibile. Quella casa a Pasturo, in Valsassina. Quell’amore così aristo-milanese per le montagne, per l’arrampicata (lo sport più bello e nobile del mondo). Quelle passeggiate nelle campagne di Lombardia dove ti sembra di sentire scorrere l’acqua delle rogge. Si allude pudicamente anche a una possibile attrazione omosessuale di Antonia per l’amica Teresita, ma non aspettatevi scene calde, non ce ne sono. La protagonista resta fino alla fine un mistero, un inafferrabile ectoplasma. Film anomalo, fin troppo trattenuto per la media del nostro cinema. Prodotto (anche) da Luca Guadagnino. Sicuramente un notevolissimo esordio, che però potrebbe convincere più all’estero che in casa nostra. Ma spero di sbagliarmi..

Luigi Locatelli - nuovocinemalocatelli.com



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Storia della grandissima poetessa del Novecento italiano Antonia Pozzi (1912-1938). Il film ripercorre i momenti cruciali della sua breve esistenza, vissuta durante il ventennio fascista, quando, a Milano studia al liceo Manzoni. L’aspetto è quello di una ragazza altoborghese, ma lo sguardo tradisce una prospettiva inedita da cui guarda il mondo, intima e febbrile. L’amore impossibile per il suo ex professore si trasferisce nelle fotografie che scatta e sulle pagine che scrive negli ultimi dieci anni della sua vita: anni di escursioni sulle vette della Valsassina, di incontri con amici, amanti e professori, sempre sospesa sul sottile filo teso fra arte e vita. Fino a quando, a soli ventisei anni, il 3 dicembre del 1938, Antonia Pozzi si toglie la vita. Fino a quel giorno non aveva mai pubblicato nessuna delle sue poesie. Al suo primo lungometraggio, Ferdinando Cito Filomarino fa clamorosamente centro, girando un film austero e pudico, di eleganza somma ma senza smancerie. Un film che ci racconta Antonia Pozzi senza pretendere di svelarcene il mistero.

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LUX - maggio 2016

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