Arrival
Denis Villeneuve - USA 2016 - 1h 56’

VENEZIA 7 CONCORSO



  Denis Villeneuve è uno di quei registi che si discostano sapientemente dai generi, riuscendo a svincolarsi dagli stilemi preconfezionati del cinema hollywoodiano. Una firma, quella del regista canadese, capace di confezionare successi di pubblico e critica grazie ad un'attenzione per la forma e il dettaglio che l'hanno più spesso e facilmente fatto accostare a David Fincherfilm precedente in archivio. E dopo drammi controversi come La donna che canta e Prisoners, un'incursione tesissima nel mondo del narcotraffico in Sicario, passando per il thriller psicologico Enemy, con Arrival passa infine anche il confronto con la fantascienza – in attesa del progetto sul nuovo Blade Runner.
Arrival è stato senza dubbio uno dei titoli più acclamati del cartellone della 73esima Mostra d'Arte Cinematografica di Venezia, la storia è quella di Louise (una straordinaria Amy Adams, applaudita al Lido anche per l'interpretazione in Nocturnal Animals), una linguista di fama mondiale che viene chiamata dal governo degli Stati Uniti come interprete per comunicare con gli alieni. Dodici monolitiche astronavi sono apparse in altrettante diverse zone del pianeta e nessuno è in grado di comprendere le ragioni dei visitatori. Da qui in poi Villeneuve si adopera a smuovere i tasselli di un perfettamente calibrato racconto in cui la comunicazione (o meglio il linguaggio) e la memoria sono i comuni denominatori.

Nel mezzo c'è il dramma della donna per la perdita prematura della figlia, ma il tempo non è evidentemente qualcosa di razionale, ne semmai lineare come preferibilmente lo interpretiamo, lo orchestra invece il regista col montaggio. E mentre la tensione è tesa verso una catastrofe imminente, una guerra mondiale dettata (come sempre?) dalla mancata comprensione delle altrui ragioni, lo spettatore, smarrito in una dimensione temporale di cui non conosce le coordinate, al pari Louise è costretto a un gioco di lettura e interpretazione dei segni e della grammatica, questa volta del cinema. Se infatti il bellissimo Gravity di Alfonso Cuarón permetteva una profonda e complessa riflessione sullo spazio (scenico) decostruendo i confini dello schermo cinematografico, in Arrival il semplice quesito “e se arrivassero gli alieni?” si fa pretesto per riflessioni estetiche e semiologiche ben più complesse.


In questo senso il film di Villeneuve risulta anche più riuscito probabilmente di un Interstellar (l'accostamento è immediato per genere e tematiche) poiché la sua cinefilia schiva i sentimentalismi e la retorica della fantascienza esplicativa di Nolanfilm precedente in archivio. La mano di Villeneuve è solida e classica, preferisce togliere il superfluo piuttosto che aggiungere orpelli (la cura del dettaglio si vede anche nella rinnovata collaborazione con la casa canadese di post-produzione Oblique FX, che già in Sicario aveva dimostrato una precisione straordinaria nella cura degli effetti speciali, invisibili all'occhio ma di fatto finemente elaborati). Qui la fantascienza è uno spunto che permette di decifrare il presente attraverso una proiezione nel futuro. I ricordi si fondono al presente e dopo una spirale narrativa complessa e maniacalmente disegnata, il messaggio si rivela finalmente chiaro e leggibile, privo della presunzione di spiegare ciò che ancora non conosciamo. Il senso dimora nel ricordo e il linguaggio è lo strumento essenziale non solo per la pace e la comprensione, ma per l'evoluzione.

Valentina Torresan - novembre 2016 - pubblicato su MCmagazine 41