La banda Baader Meinhof (Der Baader Meinhof Komplex)
Uli Edel - Germania 2008 - 2h 29'

"La protesta è quando dico che una cosa non mi sta bene.
L'opposizione è quando faccio in modo che quello che non mi sta bene non accada più"

"Occorre una nuova morale... Una linea netta che ti divida da ciò che vuoi combattere"

"L'individuo in uniforme è un maiale. Uccidere un maiale non è reato"

    Chi si è cimentato con una attenta visione critica de Il divo di Sorrentino avrà forse sofferto per l’inadeguatezza dei proprio ricordi di fronte ad una ridda di personaggi, situazioni, eventi che hanno segnato gli ultimi cinquantanni della storia d’Italia. Lo stesso può accadere con La banda Baader-Meinhof. Certo qui l’alibi di un contesto prettamente tedesco vale ad alleggerire i sensi di colpa della nostra memoria, ma, per chi ha vissuto in età (quasi) adulta la fine degli anni ‘60 e la compiuta veemenza del decennio successivo, le “responsabilità” di una cultura socio-politica incerta o frammentaria emergono drasticamente. Uli Edel (Cristiana F. - Noi i ragazzi dello zoo di Berlino, Ultima fermata Brooklyn) affronta con rigorosa storicità l’escalation di rabbia, violenza e disperazione che ha contraddistinto le “gesta” del gruppo di terroristi tedeschi di cui Andreas Baader e Ulrike Meinhof furono le guide ideologiche e i punti di riferimento per i media. È con la Meinhof che si apre il film, una Ulrike ancora moglie e madre felice che si gode il mare e la spiaggia con figlie e marito: unico scampolo di serenità per un crescendo di tensione che prende via via allo stomaco con la forza di una ricostruzione intensa, forse “fredda”, ma di una puntualità cronachistica esemplare, di una documentata, incalzante, cupa drammaticità. Le “tappe” sono più o meno famose, ma tutte di un turgore politico che incattivì gli animi, esasperò i contrasti, innescò una tragica spirale “di piombo”: la brutalità delle risse nelle manifestazioni contro lo Scià e Farah Diba, l’uccisione di uno studente (da parte di un poliziotto) durante i cortei del ’68,, le agghiaccianti testimonianze televisive dei civili trucidati nella guerra del Vietnam, l’attentato a Rudi Dutschke , “eroe” della lotta contro la connivenza dello stato tedesco con l’imperialismo americano.

Poi il costituirsi della RAF (Rote Armee Fraktion), il balzare agli onori della cronaca dei primi brutali assassinii e dei nomi di Andreas Baader, Gudrun Ensslin e, appunto, Ulrike Meinhof, che entra nel cono d’ombra del terrorismo abbandonando, con la stessa inesorabile “coerenza” antisociale la sua professione di giornalista e il suo ruolo di madre.

Già Germania in autunno (1978) e Anni di piombo (1981) avevano riportato nell’immaginario cinematografico la cruda realtà della Germania di allora, ma qui Edel osa, con la lucidità del tempo trascorso, una fotografia ad ampio spetto che, prendendo spunto dal libro di Stefan Aust (Der Baader Meinhof Complex), dipana tutto il percorso di un disperato progetto di scontri ideologici, di deliranti, impietose azioni sovversive.

Si parte dall’apprendistato nei campi della guerriglia mediorientale per arrivare alle sparatorie e alle bombe nel cuore della Germania; il riorganizzarsi dello Stato e delle forze di polizia porta però al progressivo sfrangiarsi della banda i cui membri passeranno dall’isolamento nella varie prigioni tedesche all’ambigua riunificazione nel carcere di Stanheim.


Ecco esplodere allora sullo schermo l’assalto all’ambasciata di Svezia, l’incursione alle olimpiadi di Monaco (andare a rivedersi Munich di Spielberg per ricomporre altri tasselli!) e il colpo di coda della nuova generazione RAF (teso proprio alla liberazione di Baader e compagni) che porta al sequestro dell’industriale Hanns-Martin Schleyer (è ormai il ’77 e il rapimento, in copia carbone, di Aldo Moro è alle porte), al dirottamento del Boeing della Lufthansa a Mogadiscio.

Il ripasso storico-cinematografico di Edel e Aust (ma del taglio enciclopedico della sceneggiatura è responsabile anche il produttore Bernd Eichinger) si conclude con la liberazione dei passeggeri, l’esecuzione di Schleyer, il “suicidio” collettivo di Meinhof, prima, di Baader, Ensslin e gli altri poi. Le virgolette fanno riferimento alla stupore e alle perplessità che non solo la sinistra di allora riscontrò in quelle morti così ben orchestrate nelle celle di Stanheim. Il film sposa la tesi dell’suicidio, ma ogni lettura oggi è lecita. Non è invece lecito dimenticare (rimuovere) l’insana deriva che accompagna ogni esasperata contrapposizione: generazionale, ideologica, sociale. Giocando con le citazioni cinefile: gli Anni di piombo sono lontani per sempre? Nella coscienza, nostra e della nostra classe politica non è troppo acquietante Il silenzio dopo lo sparo?.

ezio leoni - La Difesa del Popolo   30 novembre 2008


promo

Germania occidentale, anni '70. Una serie di attacchi terroristici, dirottamenti aerei, rapimenti e assassinii sconvolgono il mondo politico e l'opinione pubblica tedesca. A rivendicare tali atti saranno i membri della RAF, movimento di lotta armata dell’estrema sinistra, fondato e guidato da Andreas Baader, Ulrike Meinhof e Gudrun Ensslin. Arrestati e incarcerati, i capi e alcuni membri del movimento moriranno “suicidati” in prigione nel 1977… La macchina da presa registra "la storia" accentuando la deriva dei protagonisti e del loro progetto 'politico', risucchiato dalla violenza, seguendo la banda nell'accelerazione senza ritorno delle sue azioni. Lucido e incalzante. Oggi come allora non si può far finta di niente.


LUX - novembre 2008

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