Il cavaliere elettrico (The Electric Horseman)
Sidney Pollack  - USA 1979 - 2h

      Prendiamo il cinema come arte pura, fatta di immagini e naturalezza, e prendiamo uno splendido stallone di razza a simbolico alfiere. Pensando poi al cinema in cattività nella gabbia d’oro del business produttivo, imbrigliamo lo sfortunato equino in una bardatura elettrica fatta di fili e lucette luminose. Incorniciamo quindi il tutto con la metafora del western urbano (<civilizzazione» progressista del genere principe della cinematografia americana) e la «parabola» sarà pronta alla predicazione schermica: nostalgia accattivante e morale risanatrice sapranno cavalcare, come sempre, l’arcobaleno di celluloide ed ancora una volta la scatola hollywoodiana sarà stata confezionata a puntino, ansiosa di sciogliere, davanti al pubblico muto nella sala buia, il suo bel fiocco luccicante di illusioni. Così quando dall’interno della scatola cominciano ad uscire le immagini di un impavido cow-boy di rodeo che ha ormai bruciato il suo successo tra premi ed ossa rotte, sappiamo già che la favola è sempre la stessa, che certo cinema vive cibandosi del proprio cadavere, ma che lo zombie-hollywoodiano è un professionista affascinante e che vale la pena di lasciarci prendere la mano (e gli occhi e la mente) quando la firma è quella di Sidney Pollack, il passo della cavalcata lo tiene Jeremiah Johnson — pardon, Robert Redford — e il titolo del film, una volta tanto, traduce fedelmente la splendida dicitura originale, Il cavaliere elettrico.
Sonny Steele (R.R.) si è stancato di capitomboli e radiografie, le sue galoppate sono ora sponsorizzate dal «Ranch Breakfast» ed egli può affogare in libertà il suo vuoto presente nel whisky, tanto ha due fidi amici che lo spupazzano in Cadillac da un meeting pubblicitario all’altro ed i cavalli che deve montare, tutti imbellettati di lucette, non sono che simpatici ronzinj che lo tengono in sella anche quando il sonno della sbronza è più forte degli applausi degli spettatori. Non conta che Redford-Sonny snobbi l’ambiente, che si senta quasi un eroe crepuscolare di un mondo strangolato dal mercato delle multinazionali: il compromesso è tutto suo — non c’è Barbra Streisand a consolarlo con The way we were — e la sua foto-cartellone col volto sorridente, il costume sgargiante e la scatola di corn-flakes in mano è l’unica immagine reale di se stesso, il biglietto da visita nazionale di «The Ampco Cowboy», casa tutta confort a Malibu Beach, matrimonio fallito, bottiglia sempre in mano e improrogabile in contro stampa a Las Vegas.
Qui non c’è solo la luce fredda dei flash, la pagliacciata luminosa nel recinto di terra battuta, ma pure il caos della ricca metropoli, la scintillante ottusità delle slot-machine, i commenti insipidi dei producer, le taglienti occhiate delle telecamere e le sardoniche domande dei «valletti» dei mass-media. Tra questi c’è Hallie (Jane Fonda) — sorella di latte, si vede subito, della Kimberly Welis di
Sindrome cinese — e sue sono le domande più infide, sue le allusioni più pesanti. Ma mentre Sonny fatica a tenerle testa e a risponderle per le rime, noi, con lo sguardo smaliziato e saturo di «happy ends», capiamo subito che tra quei due estranei, che si incontrano per la prima volta, l’idillio è già cominciato, che prima o poi si riincontreranno e finiranno sicuramente d’amore e d’accordo.
Ma non badiamo all’incrinatura! Il «nostro» scopre che per lo spettacolo di turno non avrà la prateria in cui sbizzarrirsi ma un «bel» palco illuminato e che sotto la sella sentirà agitarsi non un cavallo qualsiasi ma nientemeno che Rising Star, stallone di razza, grande campione un tempo ed ora pure lui costretto a soggiacere alle regole dei gioco, intruppato nei pochi metri quadrati dietro le quinte, a disagio ed imbottito di tranquillanti. Sonny lo accarezza, sembra ritrovare nell’umiliazione della povera bestia la spina inaccettabile del proprio orgoglio ferito (non si svendono così anche i cavalli!), gli balza in groppa e via! Una imprevista passerella tra il pubblico elegante ed eccitato, una gimcana tra il tintinnare delle macchine a gettone, poi fuori per una galoppata liberatoria nella notte di Las Vegas: con le lucette lampeggianti a completare la cornice surreale delle insegne luminose, con la coscienza mitica della propria trasgressione e... con il plauso scenico per la perfezione formale dell’effetto visivo che suggella in poche immagini il carisma comunicativo di tutta la pellicola.
La parte seguente del film è ben poca cosa in confronto. L’ariosa «redenzione» negli spazi aperti si brucia in un meccanicismo retorico ove compaiono necessariamente l’oppressiva ed insinuante filosofia dei mezzi di comunicazione nel vivere quotidiano, la favorevole mano di coincidenze che asseconda la riscoperta dei puri ideali, la melensaggine della immancabile love story che arriva a far scolorire persino la maestosa cromaticità dei paesaggi americani.
C’è comunque la sequenza inebriante della fuga dal blocco stradale con lo slalom di Rising Star tra le auto e le moto della polizia, che fa rivivere l’epopea di un’alleanza uomo-cavallo superiore, nell’intima intesa e nel risultato pratico, al progresso tecnicistico del motore a scoppio.  E c’è pure da notare il tocco pulito che caratterizza
Il cavaliere elettrico e che, se tal volta degenera in una monotonia squalificante, qua e là riesce anche a non perdersi del tutto nella piega banale dei moralismi ecologici (la riconquista libertà del cavallo nei pascoli dello Utah) o arrivistici (la crisi nel professionismo cinico della reporter a caccia di «scoops») o sentimentali. Resta in ogni caso quella suggestiva cavalcata elettrica la quale, oltre che a far da iceberg stilistico, riassume la tematica, estrinseca e metalinguistica, del prodotto.
Nel mito della fuga dalla massificazione cosmopolita verso l’eden naturalistico della tradizione USA (la prateria) s’innesta il tramite onirico e catartico dell’oscurità (la notte in cui si immergono cavallo e cavaliere) e l’abbraccio compromissorio tra il luccichio del singolo (le lampadine dei due) e il grande sfavillare del tutto (l’illuminazione di Las Vegas) Non è solo un connubio figurativo per la plasticità del quadro, è pure il tributo implicito all’abbagliante onnipotenza del progresso, del consumismo e del linguaggio dei «media»: per sfuggire ai controlli Sonny deve nascondersi in un maxi-camion (tipo quello che falciava Kirk Douglas in
Solo sotto le stelle), per poter completare la sua «missione» deve portare dalla sua parte l’opinione pubblica (e quindi incrementare le vendite!); per far questo, per difendere se stesso e Rising Star, deve «passare attraverso» l’occhio industriale della telecamera di Hallie: proprio come per varcare le strade della città-baraccone ha «dovuto addobbarsi» da centauro natalizio... Proprio come l’ambiguo ribellismo del nuovo cinema americano ha dovuto fare i conti con la grandiosità del mostro commerciale, costringendo i registi come Pollack ad inseguire a fatica il proprio messaggio d’autore mentre si invischiano, senza alternativa, tra il lievito e la melassa del megapasticcio hollywoodiano.

ezio leoni - Espressione Giovani  marzo-aprile 1981

soggetto: Paul Gaer e Robert Garland da un racconto di Shelley Burton
sceneggiatura
: Robert Garland         
fotografia: Owen Roizman  
musica: Dave Grusin  
montaggio
: Sheldon Kahan  

interpreti: Robert Redford (Sonny), Jane Fonda (Hallie), Valerie Perrine (Charlotta), Wiffie Nelson (Wendell), John Saxon


Sidney Pollack (1 luglio 1934 - 26 maggio 2008)

cinema invisibile TORRESINO ottobre-dicembre 2008