Chicago
Rob Marshall - USA 2002 - 1h 53'
  The Hours
Stephen Daldry - USA 2002 - 2h'

miglior FILM
 miglior attrice non protagonista
(Catherine Zeta-Jones)
miglior montaggio
miglior sonoro
miglior scenografia
migliori costumi

 

 miglior attrice protagonista
(Nicole Kidman)


 

 

 

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"non si può trovar pace sottraendosi alla realtà..."


    Tripudio dello specifico filmico. Se c’è una categoria da tenere d’occhio quest’anno nella serata degli oscar è quella del montaggio. Il montaggio è anima caratterizzante del linguaggio cinematografico, è, come diceva Kubrick, “la cosa più vicina all'idea di un luogo in cui fare del lavoro creativo”. Ammortizzato l’impatto con la mirabile, sconvolgente architettura di Gangs of New York è ora la volta di Chicago e di The Hours che affascinano per un ulteriore, personale e azzeccato intarsio di scene, inquadrature, sequenze, per una contestualizzazione dell’idea stessa di montaggio, finalizzata in un caso a rivitalizzare il ritmo, nell’altro a dare intensità ai raccordi intimi del racconto.
Chicago è una nuova, spettacolare esibizione del
musical. Se Moulin Rouge resta una vetta a se stante di creatività, trasgressione e citazionismo cinemusicali, il film di Rob Marshall film successivo in archivio (di origine teatrale, al suo esordio) riprende gli archetipi dei classici e li rigenera con un tocco di originalità che ne fa un’ulteriore pietra miliare del genere. Va tenuto conto che Chicago ha alle spalle un grande successo del palcoscenico (1975) - a firma Fred Ebb (libretto), John Kander (musiche), Bob Fosse (coreografia e regia) - e che sfrutta una turbolenta avventura di omicidi passionali, requisitorie forensi, brama di successo. Roxie (Renée Zellweger) e Velma (Catherine Zeta-Jones) sono due assassine (la prima ha sparato all’amante sfruttatore, la seconda ha giustiziato marito e sorella, scoperti in flagrante) che affidano la loro salvezza all’avvocato “da prima pagina” Richard Gere. Gli inserti di musica e balletti non sono parentesi di armoniosa leggerezza che trasfigurano il vivere comune (come nella tradizione di Kelly e Astaire), ma squarci onirici che mettono in scena aspettative, sogni ed incubi delle protagoniste. Solo la sequenza finale (splendida, coreograficamente esplosiva!) rientra nel “reale” della storia, ma al di là della finezza linguistica Chicago è puro piacere di visione e ascolto: canzoni accattivanti, scenografie di ballo impeccabili, montaggio frenetico, scoppiettante di brio, nella piena coscienza (di mutua complicità regia-pubblico) che “that’s entertainment !”.

Il montaggio, in The Hours, assume una valenza molto più intimista, non tanto finalizzato ad un cadenza ritmica frenetica, ma al compendio diegetico dell’insieme. Il soggetto è quello del romanzo omonimo (premio Pulitzer!) di Michael Cunningham che si espande su tre diversi piani narrativi. La musa del racconto è Virgina Woolf, la scrittrice inglese morta suicida nel 1941. Il film si apre con il suo abbandonarsi nelle acque del fiume: le lettere d’addio lasciate sul caminetto, i sassi del greto infilati nelle tasche… Il plot di The Hours prende poi di petto l’idea base del testo (e del titolo) che è quella di analizzare il susseguirsi (delle ore) della giornata clou di tre protagoniste, di tre esperienze femminili legate l’un l’altra da un percorso di sofferte sensibilità ed arcani destini.

La vita della Woolf viene ripresa negli anni della pausa forzata a Richmond (1913, un necessario esilio da Londra per tamponare la sua allarmante instabilità mentale), mentre è alle prese con la stesura del suo romanzo Mrs Dalloway: il ruolo, affidato a Nicole Kidman, la vede declassata dalla sua fulgida bellezza, alterata nei lineamenti per dare veridicità, anche fisica, alla cupa nevrosi della scrittrice.

L’habitat melò di Lontano dal paradiso (lì il New England, qui Los Angeles) ritrova connotazione (1951) e protagonista (Julienne Moore) nel racconto di Laura Brown, moglie e madre in crisi di fronte ad una realtà che più non la convince, che più non la soddisfa: le tappe della sua crescente disperazione vanno da un’impasse culinaria all’angoscia per la malattia di un’amica, dal turbamento per un bacio saffico alla lettura appassionata di Mrs. Dalloway.

Infine la descrizione di una New York contemporanea, un po’ snob ed emotivamente fragile, vede l’”impeccabile” Clarissa Vaughan–Meryl Streep (gli amici l’hanno soprannominata “Mrs Dalloway”) abbandonarsi allo sconforto di fronte al tragico destino del suo amico più caro (Ed Harris), malato terminale di AIDS.

Stephen Daldry film successivo in archivio, che in Billy Elliot, aveva abusato di scene madri di toccante empatia, lavora qui su un accavallamento continuo di suggestioni dirompenti ma trattenute (sta alle musiche di Philip Glass tessere l'intensità del crescendo!), su raffinate descrizioni di psicologie e ambienti che suggeriscono l’emozione ma che poi non la lasciano esplodere, facendo evolvere le tre vicende in un intreccio esistenziale teso a indagare, senza soluzione di continuità, sulla specularità tra il reale e la fiction: Virginia Woolf che decide di non far morire il suo personaggio, ma che “immola” se stessa – la signora Brown che sulle pagine del libro della Woolf elabora la propria lacerazione interiore – Clarissa Vaughn che, in sintonia con il suo soprannome, sembra arrivare ad un punto di non ritorno e che dovrà implicitamente confrontarsi con una storia adolescenziale di dolore e solitudine, “ereditata” dalle altre due storie parallele.
Niente di sostanzialmente nuovo rispetto al libro di Cunningham, ma
The Hours è reso con stile cinematografico coerente e incisivo: l’acqua del fiume che invade la stanza d’albergo in cui si è rifugiata Laura, il crollo di nervi di Clarissa nel bel mezzo dei preparativi per la festa, l’ispirazione letteraria di Virginia che prende consistenza nello scorrere del pennino sulla carta bianca… E il tutto è ricomposto sinuosamente dai raccordi della macchina da presa, che alterna analogie e rimandi in situazioni distinte (un gesto, una frase, un vaso di fiori), che scivola dal volto di una protagonista all’altra, che fa di tre figure di donna un’unica sfaccettata immagine femminile in tormentato cammino, alla ricerca di un’identità senza tempo, di una serenità irraggiungibile, di un senso profondo da attribuire allo scorrere delle ore.

ezio leoni - La Difesa Del Popolo  23 marzo 2003