L'estate di Kikujiro (Kikujiro no natsu)
Takeshi Kitano – Giappone 19991h 56’

da FilmTv (Emanuela Martini)

Follie di Takeshi Kitano, l'autore cattivo e inventivo che ha rianimato con folgoranti pennellate (Hana-bi) e suicidi in primo piano (Sonatine), con una violenza che, programmaticamente, sfiora sempre l'autoparodia e risate che paiono ferite che squarciano il volto umano, il cinema giapponese contemporaneo. L'estate di Kikujiro, l'ultimo film di Kitano, è uno spiazzante road movie "natalizio", che descrive il viaggio attraverso il Giappone, durante un'estate calda, di Masao, un bambino alla ricerca della madre, e di uno stravagante ex yakuza un po' suonato, cui Masao è stato affidato da un'amica della nonna. Con un occhio a Il monello di Chaplin (l'ha dichiarato lo stesso Kitano), rivisto attraverso la tradizione moderna di road movie con bambini (per esempio, Alice nelle città di Wenders e Paper Moon di Bogdanovich), Kitano coniuga il suo straordinario senso cromatico (paesaggi che sembrano tele dipinte e le incredibili camicie hawaiane dei due protagonisti) con il suo gusto per la comicità demenziale (i due trucidi "Hell's Angels", che finiscono per rivelarsi imbranati e giocherelloni, interpretati da due degli attori del gruppo "Takeshi Gundan", con il quale Kitano lavora nei suoi spettacoli televisivi) e con quella malinconia della violenza e della perdita dell'anima giapponese che sempre serpeggia nei suoi film. La favola, che in fondo non è buona, ma rattristata dall'immagine di una madre che si è rifatta una vita "regolare" (come non ricordare Peter che in Peter Pan nei giardini di Kensington torna a casa e trova le inferriate alle finestre e la mamma con un nuovo bambino, appena nato?), concilia, almeno, sulla possibilità di solidarietà tra personaggi che, all'apparenza, non dovrebbero aver niente da spartire. Formalmente accecante, è capace di meraviglie visive con le suggestioni e i lampi generati dall'inconscio infantile e da quello, bizzarro, di un adulto che vive oltre la soglia dell'eccentricità.

da Duel (Carlo Chatrian)

L'estate di Kikujiro cerca di colmare il gap formatosi tra l'immagine da showman che Kitano ha in Giappone e quella autoriale riconosciutagli in Occidente. Tra il folle, imprevedibile, iconoclasta Beat Takeshi e il raffinato, malinconico, Takeshi Kitano la distanza è poi solo apparente. Fittizia, come quello scarto che il sorgere del comico presuppone. Scarto necessario all'esplodere della risata, che avviene quando ci si rende conto della distanza che ci separa dall'oggetto della commedia; ma anche scarto inutile perché, quando il sorriso si chiude, si scopre un'aderenza della nostra realtà al comico. Tutto il cinema di Kitano gioca sulla presenza e sul superamento di questa sottile barriera. La stessa inquadratura fissa e il deciso cromatismo del suo stile comportano un distacco da ogni naturalismo mimetico e indirizzano lo spettatore verso altri percorsi percettivi. In questo il comico è solo un altro modo per imporre e poi superare quello steccato che divide artista e pubblico. La maschera muta di Beat Takeshi non fa che esaltare questa soluzione: allontana ogni identificazione con un atteggiamento opaco, se non ostile, per poi richiamarlo, nel rovesciamento grottesco successivo. Tra i due si dà una distanza incolmabile: tra il violento impassibile yakuza e il divertito compagno d'avventura prende posto un'ellisse, che regge la misura del comico. Tra il Giappone contemporaneo e Takeshi Kitano si instaura quella distanza di sopra, nel senso che l'autore, a ogni nuovo film, si allontana criticamente dal quotidiano. In L'estate di Kikujiro l'idea di vacanza, con il viaggio fuori città, dovrebbe fungere da preludio a una galleria di situazioni atipiche, avventurose o grottesche; di fatto i "mostri", incontrati da Kikujiro e Masao, rivelano profonde scaglie d'umanità. Come la violenza, anche il comico non è che un sentimento, un umore attraverso cui osservare il reale. Rispetto alle opere precedenti, Kitano rivela un'adesione maggiore alle forme del quotidiano. L'estate di Kikujiro è, non diversamente dagli apologhi televisivi o giornalistici dell'autore, un monito al Giappone contemporaneo. E, al tempo stesso, è un omaggio a una serie di figure che ne rappresentano una marginalità nascosta. Se l'idea di riciclaggio, di recupero di uomini persi, appartiene all'autore, qui essa si estremizza, sfiorando il paradosso. Kitano sembra accogliere tutti i borderline della società (dai bambini con madre assente, ai biker, dai poeti di strada agli yakuza di mezz'età) e con essi ipotizza un insieme di relazioni alternative. Il gruppo di sbandati riunito da Kikujiro ricorda i compagni di viaggio del cavaliere solitario nel vecchio West. Come in Ford, come in Eastwood. Autori simili, accomunati dalle stesse accuse (violenza, moralismo) e dalle stesse idee (guardare ai margini per proporre nuovi, affascinanti, modelli di comunità). I film di Kitano mostrano un'assenza cronica e dolorosa della famiglia. A essa, quando è possibile, si sostituisce un altro gruppo (di coetanei, di gangster, di poliziotti). In L'estate di Kikujiro questo dato è centrale e dichiarato: tutti si improvvisano genitori per intrattenere il piccolo Masao. I vari tentativi rivelano la loro natura d'atti d'amore. Nei giochi di prestigio, nei travestimenti, negli scherzi che popolano il film è possibile leggere delle richieste d'affetto che i personaggi invocano. Gli uomini indossano la maschera da clown per poter nascondere le loro lacrime, senza patirne troppo le conseguenze. Come già i gangster, a cui Kitano ci ha abituati, anche i personaggi di questa versione comica hanno il destino segnato: il film non fa che dar loro un'altra possibilità di resistenza. Non più urlata, ma gioiosa.

scheda CGS febbraio 2000
[Don BOSCO]