Fur: un ritratto immaginario di Diane Arbus
(Fur: An Imaginary Portrait of Diane Arbus)
Steven Shainberg - USA 2006 - 2h 02'


sito ufficiale

da Il Corriere della Sera (Paolo Mereghetti)

        A più di trent'anni dal suo suicidio, il fascino ambiguo e morboso delle fotografie di Diane Arbus non smette di inquietare. Perché quella maniacalità nel riprendere i personaggi più marginali? Nell'esaltare i segni di una infelicità così sofferta e disperata? Nel cogliere il lato più oscuro e sgradevole dell'umanità? Una risposta semplice ed esaustiva è difficile da ipotizzare e lascia il campo aperto a spiegazioni spesso divergenti se non opposte (come si può leggere anche nella biografia sulla fotografa scritta da Patricia Bosworth e appena ripubblicata da Rizzoli). Un'ambiguità che il regista Steven Shainberg e la sceneggiatrice Erin Cressida Wilson hanno trasformato in libertà assoluta, inventando «un ritratto immaginario di Diane Arbus» come dice il sottotitolo di Fur, il film che ieri ha inaugurato la Festa del cinema di Roma per la sezione Première. L' idea centrale del film è quella di sintetizzare le pulsioni che guidarono le scelte fotografiche della Arbus nel fascino che esercita su di lei un misterioso inquilino che si rivelerà essere una specie di uomo-scimmia (o leone, a vedere il trucco del volto), totalmente coperto di peli. Venuto a vivere al piano di sopra proprio quando Diane non riesce più a condividere la vita del marito (un fotografo pubblicitario piuttosto routinier) e il conformismo borghese inculcatole dai genitori (due ricchi commercianti di pellicce), Lionel, così si chiama l'uomo-scimmia, diventa la guida che porterà la Arbus a conoscere mondi inimmaginati (nani, donne-torsi, giganti, dominatrix con i loro clienti, travestiti) e a confrontarsi sempre più esplicitamente con l'attrazione (anche sessuale) che prova per loro. Niente di tutto questo è realmente documentato (nell'appartamento di Washington Place, sopra la Arbus viveva in realtà l'attrice Ali MacGraw; la sua prima macchina fotografica fu una Leica e usò la Rolleiflex solo a partire dal 1962, quattro anni dopo il periodo in cui è ambientato il film) ma l'ambizione del regista non è quella della verità, piuttosto di scavare dentro le pulsioni che spingono una persona a confrontarsi con la parte più oscura di sé. Per farlo ricorre esplicitamente a citazioni favolistiche, da La bella e la bestia ad Alice nel paese delle meraviglie, ma soprattutto ribalta il punto di vista con cui siamo abituati a guardare chi è diverso da noi. In Fur non c' è né lo sguardo commosso e partecipe di Lynch e del suo Elephant Man (che obbligava a confrontarci con i tanti pregiudizi sui «diversi») né quello quotidiano e asettico di Tod Browning e di Freaks (che rispediva l' accusa di mostruosità agli esseri «normali») né quello sgradevole e amaro di Ferreri e della Donna scimmia (dove i rapporti umani erano solo di sfruttamento ed emarginazione). Shainberg sceglie di identificarsi con il voyeurismo della Arbus (meglio, che attribuisce alla Arbus) e gioca rischiosamente con l'ambiguità di una relazione che dal gusto per il perverso si incammina, forse con troppa disinvoltura, verso la passione fisica. Il pericolo in agguato è quello del kitsch, di caricare certe immagini di un eccesso di significato e quindi renderle banali, o involontariamente comiche. Succede per esempio con la barba che si fa crescere il marito della Arbus per «invidia» verso l'uomo-scimmia, troppo posticcia per essere credibile; o con il cappotto di peli che Lionel le lascia in eredità (!). Non succede invece con la descrizione del mondo di miserabili e reietti che Diane incontra, filmati con un pudore che rivela un indubbio sentimento di rispetto, se non addirittura di amore (come poi uscirà dalla foto fatte dalla vera Arbus). Ma è soprattutto la prova di Nicole Kidman a reggere il peso del film e impedire che l'eccezionalità dell'aneddoto scivoli nel cattivo gusto. Con il suo sguardo smarrito, con i suoi gesti repressi, con la sua recitazione trattenuta riesce a equilibrare una storia dalle ambizioni (troppo) estreme e a infondere una scintilla di vera umanità in tutte le scene, anche in quelle meno risolte (la lunga rasatura finale del mostro). Raffreddando il melò e dimostrando di aver saputo davvero capire lo spirito più vero della fotografa.

 

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A più di trent' anni dal suo suicidio, il fascino ambiguo e morboso delle fotografie di Diane Arbus non smette di inquietare. Perché quella maniacalità nel riprendere i personaggi più marginali? Nell'esaltare i segni di una infelicità così sofferta e disperata? Nel cogliere il lato più oscuro e sgradevole dell'umanità? Un'ambiguità che il regista Steven Shainberg e la sceneggiatrice Erin Cressida Wilson hanno trasformato in libertà assoluta, inventando «un ritratto immaginario di Diane Arbus»: l'idea centrale del film è quella di sintetizzare le pulsioni che guidarono le scelte fotografiche della Arbus nel fascino che esercita su di lei un misterioso inquilino, di scavare dentro le pulsioni che spingono una persona a confrontarsi con la parte più oscura di sé...
Da La bella e la bestia ad Alice nel paese delle meraviglie: tenendo a bada il rischio del kitsch, raffreddando il melò e giocando l'azzardo di afferrare fino in fondo il vero spirito della fotografa. Se poi l'interprete è la strardinaria Nicole Kidman, lo schemo vibra davvero di grandi emozioni e la scommessa cinematografica è (quasi) vinta.

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