sul film (Sandro Petraglia, Stefano Rulli)

SP Una decina d’anni fa avevamo scritto per la RAI un soggetto in otto parti. Eravamo partiti da un file che avevamo chiamato “I nostri padri”, conteneva le storie che ci avevano raccontato i nostri genitori sul periodo della fine della guerra, quando le due coppie si erano conosciute e innamorate e sposate. La sceneggiatura delle prime quattro parti, che arrivavano al 1960, divenne la miniserie La vita che verrà per la regia di Pasquale Pozzessere. Ma non volevamo fermarci lì. L’idea era di arrivare fino all’oggi, con il racconto della nostra generazione, il periodo dagli anni ’60 agli anni ’80, e che divenne La meglio gioventù, con la regia di Marco Tullio Giordana. A questo punto non ci restava che raccontare – dopo ‘i nostri padri’ e ‘noi’ – ‘i nostri figli’, la generazione che oggi va dai venti ai trentacinque anni. Di quest’idea avevamo parlato ad Angelo Barbagallo, però dopo La meglio gioventù per qualche anno non siamo riusciti a trovare una storia, un soggetto, che ci facesse ‘vedere’ i personaggi. Fino al momento in cui abbiamo sentito che potevamo raccontare tre fratelli. Da lì è nato Le cose che restano.
SR La famiglia è al centro dell’immaginario degli italiani, al centro dell’identità sociale. La famiglia proletaria de La vita che verrà nasce dalla guerra, dalla miseria, e cerca di affrancarsi attraverso un’ascesa sociale, una solidarietà che rimanda a qualcosa d’antico, alle famiglie patriarcali. Quando il nucleo delle due coppie si scinde, quando comincia a vivere meglio, perde la propria identità tra un passato che non è più il loro e una condizione piccolo borghese che gli resta estranea. La meglio gioventù racconta invece una famiglia borghese in cui la rottura interna è culturale, legata alla politica, alle difficoltà di misurarsi con quegli anni prima belli e poi terribili che vanno dalla fine degli anni sessanta al 2000. In quest’ultimo lavoro, Le cose che restano, le figure dei genitori – che in passato erano centrali, portanti – si perdono, si smarriscono, vanno via, lasciano la casa. E i tre figli cercano di trovare ognuno una propria strada individuale, attraverso conflitti e rapporti molto diversi tra loro, che però gli permettono di ridare vita alla casa svuotata, che diventa simbolica delle possibilità di creare nuove forme di famiglia, non più legate dal sangue ma dal bisogno di una identità esistenziale talvolta più profonda del sangue.
SP Ne Le cose che restano manca il filtro della memoria e quindi il ritmo del racconto è diverso: nelle storie precedenti c’era tutto il tempo di mostrare ragazzi che diventavano adulti, che si sposavano, che diventavano padri, mentre i dolori a poco a poco diventavano cicatrici. Qui la scommessa è stata di fare una storia ‘tutta al presente’, con personaggi che incontri oggi, per strada, in un bar, su un autobus. Oggi la ‘casa di famiglia’ sembra non esistere più, la famiglia esplode, si allarga, arrivano persone da fuori che ci contaminano, che talvolta ci complicano la vita, che talvolta ce la arricchiscono. E anche noi stessi andiamo fuori, viaggiamo per il mondo, costruiamo storie, e rapporti, e famiglie, lontano da qui…
SR Scrivere Le cose che restano è stato più difficile dal punto di vista della struttura del racconto e dei personaggi – che non hanno un centro preciso. I personaggi de La meglio gioventù avevano una loro traiettoria, un fratello voleva diventare psichiatra, l’altro poliziotto, la madre era una professoressa di liceo, la sorella maggiore era una giudice. Tutte cose ‘scelte’. Ne Le cose che restano invece il fratello più giovane, Nino, si laurea in architettura e poi va a fare il manovale. Il maggiore, Andrea, lavorando col Ministero degli Esteri, è sempre in giro per il mondo, sempre in fuga. E perfino Nora, la sorella psicologa, che all’apparenza appare come il personaggio più solido, vive più le vite degli altri, dei suoi pazienti, che la propria. Insomma, si tratta di personaggi che non vivono su colpi di scena o punti di svolta che portano da A a B e da B a C. E questa, per noi, è stata una novità che ha investito anche il nostro modo di scrivere i dialoghi. Era la materia stessa che lo richiedeva. Se davi troppa chiarezza e troppa spinta ‘politica’ a questi personaggi, perdevano in verità.
SP Il nostro file iniziale stavolta si chiamava “The home”, perché la vera spinta iniziale è arrivata quando abbiamo cominciato a immaginare una ‘casa’ calda, accogliente, viva: un grande appartamento in cui vivono un padre professionista, la madre ex medico, e i figli. Abbiamo subito sentito che non potevamo puntare troppo sulla trama, e il risultato è stato che tutto s’è fatto più faticoso, perché quando si fanno film con meno intreccio, paradossalmente ci vuole più lavoro. Se i fatti sono molto forti, sono loro a guidare gli snodi narrativi. Ci siamo tenuti un po’ bassi per permettere ai sentimenti di emergere più forti.
SR Insomma abbiamo cercato di depurare il racconto dai pretesti per cercare appunto quali sono ‘le cose che restano’ nelle relazioni tra i personaggi.
SP Il personaggio di Nino, che è il nostro vero protagonista, è un essere trasparente e fragile, dotato di una sensibilità che neanche sa di avere, un personaggio che per tutto il film si mette in gioco continuamente. E’ una cosa che sentiamo intorno a noi, nella generazione dei ragazzi – di cui si parla con molte superficialità e approssimazioni. Questi ragazzi che girano le strade, che studiano, che iniziano faticosamente a lavorare, hanno tantissimi problemi, sociali, economici, il precariato, l’identità, gli amori, ma hanno intorno a loro un mondo, almeno qui in Italia, che sembra fatto apposta per farli star buoni, per indurli a essere tranquilli, a rientrare nell’ordine. Così ci siamo detti: facciamo un matto, uno che non sta affatto tranquillo, uno che fa casino, che sbaglia…
SR Conoscevamo Gianluca Tavarelli fin dai suoi corti. Come giurati del Premio Solinas, anni fa avevamo contribuito a premiare – ovviamente senza sapere che fosse firmata da lui – la sceneggiatura di Un amore, il suo lungometraggio d’esordio. Ci sembra che – a parte l’ottimo lavoro nella scelta del cast, nella messa in scena, nel montaggio e in tutte le mille cose di cui si devono occupare i registi – abbia colto esattamente il sottotesto, il ‘non detto’ dei vari personaggi. Che è poi, per noi, la cosa più importante di tutte.