k. 364 A Journey by Train
Douglas Gordon - Gran Bretagna/Francia 2009 - 67'

Venezia 67 - ORIZZONTI - fuori concorso

   Fuori concorso nella sezione ORIZZONTI è passato quasi inosservato un piccolo capolavoro: k.364 di Douglas Gordon. L’autore, più conosciuto nell’ambito dell’arte contemporanea che in quello più propriamente cinematografico, è, tra gli artisti che fanno uso dell’immagine in movimento, uno dei più interessanti non solo per la qualità delle opere realizzate, ma anche per la riflessione teorica da cui scaturiscono.
Modificando la nostra percezione sensoriale di eventi già noti, come possono essere un film, una partita di calcio, un concerto, Douglas Gordon ci fa vedere il “nuovo”, il mai visto in qualcosa che in realtà ci è familiare, noto, già visto e fruito; con questo rovesciamento del concetto di unheimliche freudiano, l’artista crea una perturbazione, che non è più soltanto di carattere psicologico, ma di carattere culturale e storico.
Proiettando il film di Hitchkock forse più noto a tutti,
Psycho sulle pareti di un museo o di una galleria, rallentato elettronicamente in modo da durare 24 ore, Gordon produce nello spettatore un totale spaesamento spazio-temporale, che non può non implicare una riflessione intrinseca intorno al significato dell’”"arte" a partire da una sua espressione compiuta come Psycho. Non a caso quest’opera 24 hours Psycho (1999) ha ispirato, oltre a una gran mole di scritti teorici, l’ultimo bellissimo romanzo di Don De Lillo Punto Omega.
In Zidane: A XXI° Century Portrait (2006), nato dalla collaborazione con l’artista francese Philippe Parreno, l’attenzione di Gordon sembra più spostata sul piano della percezione spaziale. Le riprese di una partita di calcio tra Real Madrid e Villareal allo stadio Santiago Bernabeu sono tutte concentrate su un unico giocatore, Zidane. Modificando così la percezione che noi abbiamo di un evento, che ci è familiare, come una partita di calcio, Zidane finisce per essere il ritratto adeguato del XXI° secolo perché, “pur facendoci vedere uno spettacolo da un punto di vista assolutamente inedito, ci restituisce l’inedito sotto forma di edito, sia nel senso dell’”editing” a cui tale mai-visto viene sottoposto per essere “visto”, sia nel senso che tale novità non-ancora-vista (lo spettacolo di un solo calciatore per 90 minuti) ha senso entro l’orizzonte semantico del già-noto (la partita di calcio)”. (M. Senaldi, Doppio sguardo, p.258)
Nel filone dei “Ritratti” Gordon colloca anche quest’ultimo
k. 364 definendolo “il ritratto di una composizione musicale”.
Il film segue il viaggio in treno da Berlino a Varsavia di due musicisti di origine ebreo-polacca, Avri Levitan e Roi Shiloah, che tornano alle terre da cui le loro famiglie dovettero fuggire nel 1939, per esibirsi alla Filarmonica di Varsavia con la Sinfonia Concertante k.364 in E Flat Major di Mozart.

Inizia con una sorta di collage di suoni e immagini astratte della piscina municipale di Poznan, che originariamente era stata costruita, nel 1907, come sinagoga. Passato e presente fluttuano indistinti come i corpi che si muovono nella piscina. Nelle sequenze successive ci vengono presentati i due protagonisti, ripresi sempre in dettaglio in piani ravvicinati, attraverso il riflesso delle finestre del treno, che viaggia in un paesaggio desolato, che si trasforma a sua volta nella tela su cui si svolge un altro viaggio – un viaggio di idee, ricordi, musica. Le loro storie sono raccontate per frammenti, che appaiono e scompaiono come gli alberi spogli del paesaggio che il treno attraversa e come i lampi di luce riflessa dai finestrini del treno. E le riprese ravvicinate e i frammenti di storie creano un’empatia con i due musicisti.
“La musica esiste solo quando raggiunge le tue orecchie. Quando è nell’aria. Non ha né passato né futuro.”
Questi frammenti di conversazione vengono interpretati e visualizzati da Gordon nella seconda parte del film, quella in cui viene ripreso il concerto a Varsavia. La macchina da presa sta sempre addosso ai due musicisti e si muove, accompagnando il ritmo della musica sui loro volti, ormai a noi familiari, riprendendoli in contemporanea in split screen con primissimi piani sulle mani, sugli occhi, sul sorriso. Orchestra e pubblico sono lasciati nel fuori campo, è la musica che crea lo spazio, dentro cui anche noi spettatori siamo catturati. Tutto ciò produce una percezione sensoriale del tutto “diversa”, “nuova” rispetto a quella che potremmo avere essendo presenti personalmente al concerto o ascoltandone la registrazione dalla nostra poltrona preferita.
Lo schermo cinematografico, la “cornice” per eccellenza della cultura novecentesca, non è più inchiodato ad un modello statico della percezione, ma ospita un sistema visivo che si guarda attorno, va verso gli oggetti interessanti e li osserva da tutti i lati, passando da una prospettiva a un’altra, rendendo l’azione, di chi guarda e quella di chi elabora, parte di un unico continuum, di un grande gioco, dove la percezione sconfina nell’azione e viceversa.
Dice Gordon Douglas: “L’idea di questo film mi venne un anno fa durante un viaggio a Poznan. Il viaggio in se stesso era come un contesto per l’eventuale performance, il paesaggio è popolato da fantasmi, incertezze ed ha in risposta le fragili speranze offerte dalla musica. Io fui colpito, non solo dalla bellezza del concerto, ma dalla potenza della situazione. Si potrebbe quasi dire che la situazione mi spinse a mettere insieme un altro ritratto…”

Cristina Menegolli - MCmagazine 29 - ottobre 2010