Mariti e mogli (Husbands and Wives)
Woody Allen - USA 1998 - 1h 48'

    Un televisore con vecchie immagini di Albert Einstein, intanto una voce fuori campo ricorda la sua frase celeberrima «Dio non gioca a dadi con l'universo»: così inizia Mariti e mogli. L'inquadratura è poco accurata, tremolante. Ha l'aria d'esser casuale. «Forse non a dadi, - commenta Gabe, su cui si sposta la macchina da presa con un breve movimento verso destra - ma certo Dio gioca almeno a rimpiattino.» Subito, imprevedibile e nervoso, l'obiettivo si mette a rincorrere Gabe e Judy: li cerca da un capo all'altro di una stanza, evita pareti e colonne, li rintraccia in un corridoio, dietro una porta. Arrivato su un volto, ci si sofferma ansimante e curioso, lo "tiene", lo scruta. Ma non può evitare d'essere fulmineamente attratto dall'altro, dalla sua voce, dalla sua presenza. E allora di nuovo parte l'affanno della ricerca. Sul set, dietro l'operatore, stava Carlo Di Palma, direttore della fotografia: lo guidava, ne dirigeva lo sguardo. Nessuna (apparente) preoccupazione tecnica. Nessun controllo della stabilità della ripresa. Anzi, quel che si voleva ottenere era una parvenza di improvvisazione, di contemporaneità ingenua e amatoriale tra vicenda e scelta di inquadratura. Il risultato? La macchina da presa è essa stessa un personaggio di Mariti e mogli: soffre le emozioni degli altri personaggi, se ne lascia sopraffare, si rivolge a loro per interrogarli con primi piani incombenti. La sua soggettività e la sua emotività ci si rivelano attraverso la voluta, insistita inadeguatezza tecnica.
Qualcuno ha parlato di stile documentaristico e oggettivo, come per Zelig (1984): non dategli proprio retta. Come da tempo accade nei suoi film Woody Allen stempera i contorni e il ruolo del proprio personaggio, della propria maschera. Le sue nevrosi restano, ma perdono centralità narrativa. Ne viene così una comicità più attenuata, talvolta addirittura marginale, ma in compenso più sottile. «Perché non scrive più quelle storielle così divertenti?», si fa chiedere Gabe-Woody dalla madre di Rain. Un modo indiretto per prendersi gioco di chi, da lui, si aspetta più conferme che novità. Il centro di
Mariti e mogli, dunque, è disperso e plurale. Gabe non è protagonista in misura maggiore di Judy, né Judy di Sally o Jack, di Rain o Michael. Se un centro comunque si vuole indicare nel film, quel centro è proprio l'occhio della macchina da presa, la sua soggettività, la sua emotività messa a confronto con quelle di Gabe, Judy, Sally, Jack, Rain Michael.
Il cinema di Allen è morale. Lo è non tanto per i suoi contenuti. Sarebbe moralistico, in questo caso. Lo è invece per la sua ricerca di un punto di vista esterno ai fatti, da cui appunto valutarli moralmente. Dopo
Crimini e misfatti (1989), è in Mariti e mogli che questo riesce al meglio: il punto di vista morale (non moralistico) è conquistato proprio dall'occhio del cinema divenuto personaggio, ed è tenuto saldamente. Lo sguardo soggettivo della macchina da presa è triste e insieme dolce, come la luce dorata e calda della New York fotografata da Di Palma. Quello sguardo segue, anzi insegue gli altri personaggi: non per giudicarli, non per colpevolizzarli. Non esiste - non esiste più da tempo, nel cinema di Allen - la possibilità stessa di una oggettiva attribuzione di colpa. Gli uomini vivono in un universo indifferente(Crimini e misfatti, ancora). Il giudizio morale non è "fondato", non è assoluto. Non è moralistico, appunto. È invece un prodotto, molto umano, della partecipazione al dolore degli individui: è suscitato e reso legittimo da una sofferta comprensione della loro fragilità, della loro precarietà indifesa. Sally, frigida, fa e si fa del male con una specie di coazione distruttiva. Il marito Jack, in cerca di gratificazioni erotiche, s'illude di fuggire rifugiandosi in un amore riposante e stupido. Tornano insieme quando riconoscono l'inevitabilità del loro rapporto: accettano che ín esso la passione resti sconfitta, si rassegnano al grigio rassicurante della vita. Judy, apparentemente indifesa, "costruisce" la sua storia erotica e sentimentale. Un divorzio dopo l'altro, un matrimonio dopo l'altro, non lascia scampo ai suoi partner. Gabe, cinquantenne, vorrebbe tornare a sentire quel che non sente più. Ci prova con Rain, ventunenne e per questo ancora spavaldamente irrequieta, ma poi rimpiange la quieta dolcezza dell'amore perduto di Judy. Michael cerca il sentimento assoluto, definitivo, ma si lascia condurre per mano da un grande amore provvisorio all'altro. Chi è vittima e chi colpevole, in questo inconsapevole ferire e ferirsi? Inutile cercare la risposta nelle parole dei personaggi. Il film ne è pieno, ma su di esse prevale la compassione morale dell'occhio cinematografico, la sua passione con “Gabe”, Judy, Sally, Jack, Rain, Michael, come può condannarli quell'occhio, sapendo che anche con loro Dio gioca a rimpiattino?

Roberto Escobar - Il Sole-24 Ore

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