Il mio grosso grasso matrimonio greco (My Big Fat Greek Wedding) Joel Zwick - USA 2002 - 1h 34'
Sognando Beckham (Bend It Like Beckham) Gudiner Chada - Gran Bretagna 2002 - 1h 52'


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     Cinema multietnico, croce o delizia? Voce propositiva di attenzione culturale o pretesto d’attualità per una furba operazione commerciale? Certamente “affare” di spettacolo e, se ben costruito, veicolo propositivo di tolleranza, melting pot e… budget miliardari!

Ecco allora, a sbancare i botteghini di Natale, Il mio grosso grasso matrimonio greco, supportato dell’enorme successo americano che l’ha consacrato “sleeper” dell’anno: il termine sta ad indicare un film non troppo accreditato all’uscita che riesce invece a raggiungere incassi da record. E il successo di My Big Fat Greek Wedding (oltre 2000 milioni di dollari) è ormai confrontabile in USA con pellicole quali Pretty Woman e Se scappi ti sposo. Ciò che fa ancor più notizia è che si tratta di una produzione indipendente (solo 5 milioni di dollari), che alla regia c’è anonimo director televisivo (Joel Zwick) e che l’unica voce di rango è la produttrice Rita Wilson, moglie di Tom Hanks. La chiave di volta sta proprio nel fatto che la Wilson, che è di origine greca, ha saputo dar fiducia all’interprete-sceneggiatrice Nia Vardalos. Quarant’anni, canadese la Vardalos ha dato una svolta alla propria carriera teatrale portando sul palcoscenico un monologo semi-autobiografico che sviscera tutte le strampalate contraddizioni dell’integrazione della comunità ellenica nelle dinamiche del sogno americano. Il salto sul grande schermo è stato un azzardo ben ripagato, ma se le tasche di Nia tintinnano (una percentuale sugli incassi, anche bassa, fa presto a questi livelli a raggiungere decine di milioni di dollari) quali le vibrazioni positive nell’universo della commedia sentimentale? Nessuna o quasi! L’effetto più deprimente nella visione di Il mio grosso grasso matrimonio greco è la coreografia del pubblico in sala: a gag scontate, luoghi comuni a non finire, battute da sorriso lieve fanno eco fin dall’inizio risate di “grossa, grassa” soddisfazione. Ma allora può bastare un lancio oculato, una serie di spot promozionali che esaltano le situazioni di indubbia ilarità a precostituire il gradimento? La scintilla vitale sta, probabilmente, nel meccanismo identificativo a largo spettro che estrapola le situazioni di farsesco realismo che caratterizzano le varie comunità etniche. Quella italiana si è da tempo “bruciata” nei loschi intrighi di mafia, ma molte sono affinità con la storia di Toula Portokalos, ormai quasi zitella, soffocata dalle antiquate regole familiari. L’autoritarismo paterno può essere smantellato dall’arguzia femminile, ma anche la visione di mamma non lascia scampo (“sposare un greco, fare bambini greci e nutrire tutti fino alla fine dei propri giorni”) e lavorare al ristorante di famiglia Dancing Zorba non offre molti sbocchi sociali. Ma tant’è: tra i lazzi di un fratello illustratore frustrato e le amene intraprendenze di zia Voula, Toula riesce a ritagliarsi uno spazio autonomo in un’agenzia di viaggi ed è proprio lì che conosce Jan, un insegnate di lettre di pura estrazione wasp. L’incontro non può non sconvolgere non solo il cuore di lei, ma anche le incrollabili tradizioni familiari…
Ciò che conta non è l’ovvio ottimismo dell’happy-end, ma la ridondanza di caratterizzazioni etniche di indiscussa simpatia (dalle remore dei rapporti interpersonali al kitsch del vialetto di casa stile Partenone) e l’esuberante comunicatività della Verdalos che sa rivitalizzare il suo personaggio di bruttina stagionata e non sfigurare in brio e spontaneità accanto al suo principe azzurro yankee (John Corbett). Certo che, per restare in ambito nuziale, lo scontato duello sentimentale di Il matrimonio del mio migliore amico risulta al confronto un appassionante intrigo, per non parlare del raffinato anticonformismo di Quattro matrimoni e un funerale… Forse dal vivo, su un palcoscenico, la verve delle vicende di Nia-Toula riagguantava una sua forza drammaturgica, qui tutto è prevedibilmente accattivante, facile da cancellare nel ricordo con una spruzzata di Vetril…

Non è che l’entusiasmo vada alle stelle neppure con Sognando Beckham (da Mississippi Masala a East is East l’analisi etnico-sociale ha sceso sempre più la china del facile conformismo), ma un minimo di tensione drammaturgica, di sensibilità introspettiva gioca a favore del film di Gudiner Chadha.
Jess è un’adolescente inglese di origine indiana, appassionata di calcio, con i piedi buoni e un santo votivo chiamato David Beckham. La sua stanza è un reliquiario dell’asso del Manchester United e la ragazzina gli si confida come all’amico immaginario di tanti racconti d’infanzia. La svolta che sovverte la tranquilla esistenza indo-britannica è l’incontro con Jules, una biondina che gioca nel team femminile del quartiere. Jess entra in squadra, conquista subito un posto da titolare e ben presto anche il cuore dell’allenatore Joe. Ma le dinamiche negative si accumulano in fretta: mentre i genitori di Jess neanche concepiscono che una ragazza indiana possa cimentarsi in pantaloncini corti ad inseguire un pallone, lei finge di aver trovato un lavoro per potersi allenare di nascosto, si fa coprire dalla sorella in visita ai parenti per non mancare ad un torneo ad Amburgo (“se ora rinunci al pallone, dopo a cosa rinuncerai?”), rimane spiazzata nel trovarsi in rivalità sentimentale con Jules, vecchia amica di Joe… Anche qui il lieto fine non può mancare (dopo
Monsoon Wedding i festosi colori indiani cominciano a venirci a noia) ma, rispetto al Mio grosso grasso matrimonio greco, la definizione di ambienti e personaggi lavora sulla tavolozza del folclore più che su una monocorde esasperazione dei cliché: se l’imbarazzo della madre di Jess non riesce a svincolarsi dagli schermi oppressivi della tradizione, il padre sa fare tesoro delle proprie antiche umiliazioni (ancora il cricket, come in Lagaan, a fare da cartina di tornasole nel confronto tra l’identità indiana e quella britannica), e trova il modo per dare solidarietà a Jess proprio nel giorno cruciale per la famiglia (il matrimonio della figlia maggiore) e per la ragazza (la finale di campionato, alla presenza di un selezionatore americano).
Così pur se l’evolversi delle tensioni si stempera di continuo in una prevedibile, melliflua sobrietà, le sequenze calcistiche hanno un montaggio frenetico di ritmata musicalità e la scena madre finale in cui Jess mette senza scampo familiari (e spettatori) di fronte al suo piccolo dramma esistenziale, sa darsi un tono che lascia il segno. Che sia l’ambiente operaio dei minatori del Nord England (
Billy Elliot) o il lindo quartiere della comunità indiana a West London il talento è l’arma vincente per uscire dalle convenzioni. Che poi, per raccontarlo, il cinema tenda a cadere nel convenzionale è una realtà di cui dobbiamo prendere atto, anche in chiave multietnica.

ezio leoni - La Difesa Del Popolo - 29 dicembre 2002

LUX - dicembre 2002 / gennaio 2003

promo

Jess è una ragazza indiana che vive a Londra con i genitori. Questi vorrebbero che la figlia si sistemasse con un bravo ragazzo indiano, si laureasse in legge e imparasse a preparare un ottimo chappati. Ma l'unica cosa che Jess desidera è giocare a calcio bene come il suo idolo David Beckham. Quando Jules, una sua amica, le propone di entrare in una squadra di calcio femminile Jess accetta anche se è ben conscia che i suoi genitori non sarebbero d’accordo...


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2008