I misteri del giardino di Compton House (The Draughtsman’s Contract)
Peter Greenaway Gran Bretagna 1982 - 1h 48'

da Cineforum (Paolo Vecchi)

       Ha scritto Robert Brown che i film di Greenaway sono o documenti di finzioni o finzioni di documenti. I misteri del giardino di Compton House, pur assommando in qualche modo entrambi i caratteri, ci sembra partecipi in misura maggiore al primo.
Anche se forse non varrebbe la pena di sottolinearlo, non ci troviamo di fronte ad un film storico, con tanto di volontà «fantascientifica» di ricostruire con buona approssimazione un passato, nella sua dinamica sociale e immaginaria. La collocazione — nel 1694, in Inghilterra, in ambito agrario - borghese — ci pare qui suggerita, oltre ché dal fascino di un décor attraente anche nella sua sgradevole fisicità (si ha talora l'impressione di percepire i cattivi odori che promanano da quei volti incipriati e imparruccati), dall'esigenza geometrica di avere a che fare con un ordine rigidamente codificato, quello appunto di una classe che esce da una rivoluzione combattuta e vinta e della quale sta godendo i privilegi.
A maggior ragione, quindi, il film è ben lontano da quella che Greenaway chiama la chimera del realismo, un'ossessione filmica tipicamente inglese, a sovvertire la quale interviene un dialogo sovrabbondante e rapidissimo che, come in certi film di Mankiewicz, tende spesso più ad occultare l'oggetto che non a chiarificarlo. Certamente più pertinente, anche se non esaustiva, ci sembra la lettura del film come metafora del rapporto tra il regista e la realtà, fisica e sociale. È vero, infatti, che lo strumento usato da Neville rinvia a quello, analogo, del direttore della fotografia, che la pretesa esattezza del disegno si scontra con l'inoggettivabilità del reale, o, che è lo stesso, col mistero, che la funzione del disegnatore, che inizialmente sembra arrogantemente autonoma, si rivela poi ingabbiata in ferree determinazioni sociali, tanto da piegarsi fatalmente alle loro esigenze. È molto probabile che Greenaway, pittore e tecnico del montaggio, regista insieme d'avanguardia e inserito nel mercato, abbia proiettato la propria ombra su Neville...
Ci pare eloquente, in tal senso, la definizione che il regista da della sua opera: «a figures'- in - a - landscape - movie». In effetti, uno degli elementi del film che colpiscono maggiormente è il rapporto alterato tra personaggi e paesaggio. Come in una sorta di Arcimboldo alla rovescia, le figure umane non hanno spesso altra rilevanza che quella di elementi costitutivi di un tutto composito, minuziosamente determinato eppure indecifrabile nella sua totalità. È la grande tradizione del paesaggismo inglese del sei-settecento, certo, ma anche quella del trompe-l'oeil, del landscape rifinito in ogni particolare che, magari visto di sghimbescio, nasconde una persona o un animale, e viceversa. A sottolineare questo concetto, in modo forse eccessivo, comunque non sempre convincente, il regista ha escogitato la figura del mentecatto che si atteggia a statua, che funziona non soltanto come contrappunto ironico, o come intrusione irrazionale e «incolta» in un contesto sottoposto a drastiche regole «civili» (significativamente, è lui a «chiudere» la vicenda con una smorfia di disgusto di fronte all'ananas, frutto esotico da tutti apprezzato come una raffinatezza), ma anche come simbolo vivente dell'impossibilità della rappresentazione, di una sfuggenza corporea parallela a quella oggettuale.
Ancora, il landscape, il giardino, rimandano all'idea del labirinto, con tutte le sue implicazioni simboliche e psicoanalitiche, antropologiche e alchemiche. Siamo dalle parti del Borges maggiore, quello di “Il giardino dei sentieri” che si biforcano, soprattutto di “La morte e la bussola”, ma anche, nelle panie della coazione a ripetere (Neville ritorna a Compton Anstey per consumare l'ultimo atto, ma la sua potrebbe essere una serie di incubi concentrici, il film ricominciare là dove è terminato), abbastanza vicini a certe produzioni «dig enere» tipicamente britanniche, leggi Hammer e antenati, come il bellissimo
Dead of night (1945), di Dearden, Cavalcanti, Hamer e Crichton, oltre ché a Shining di Kubrick, regista che è stato tirato in ballo in maniera piuttosto esterna (l'ambientazione) per Barry Lyndon, che assomiglia semmai a I misteri del giardino di Compton House per il destino del protagonista, per la sua progressiva decadenza in quanto rivelazione di umanità e «sentimento», oltre ché per un analogo rapporto tra paesaggio e personaggi.
Piuttosto, da un punto di vista strutturale, il film, nella sua ricerca di verità inizialmente orientata in maniera apparentemente univoca, che poi si capovolge e viene drasticamente smentita, nella presentazione di personaggi che vengono connotati in maniera precisa, come carnefici o vittime, e poi ribaltano i loro ruoli, segue uno schema che ha una sua tradizione, marginale ma consistente, che va da “Benito Cereno” di Melville al notevole e sottovalutato La conversazione di Coppola, passando attraverso numerose tappe intermedie, tra le quali il celebre Borges del “Tema del traditore e dell'eroe”. Anzi, diremmo che, tra tutti gli esempi citati, questo è forse il più calzante, in quanto Melville e Coppola operano il rovesciamento in modo repentino (la scialuppa di Amasa Delano, la toilette nel motel), Greenaway divide il film in segmenti che corrispondono grosso modo ai singoli disegni ed agli indizi in essi disseminati, ed opera una graduale inversione di tendenza, che parte appunto dal compimento del sesto.
Ma l'organizzazione dei materiali, percettivi e immaginari, la differenziazione dei punti di vista, l'interpretazione dello statuto delle cose, del loro «carattere di alterità autosufficiente rispetto all'uomo, dal quale le separa una distanza incolmabile» (Bertetto), avvicina I misteri del giardino di Compton House anche al clima culturale del nouveau roman, di uno Husserl filtrato da Sartre e Merleau-Ponty, soprattutto al cinema di Alain Resnais (per inciso, Greenaway, prima di iniziare a girare ha voluto mostrare a tutti, attori e tecnici della troupe,
L'anno scorso a Marienbad). L'assimilazione di queste suggestioni si innesta però su un ceppo tradizionalmente solido: da un lato c'è l'inguaribile romanticismo dell'animo britannico (ricordate Losey?), dall'altro la sua refrattarietà ad un esoterismo comunque offensivo, sia per il pubblico che per la committenza. Sotto questo aspetto scatta veramente l'identificazione Greenaway-Neville: entrambi, infatti, vivono la contraddizione insanabile tra autore romantico di una finzione e finzione strutturalista di un autore, divisi come sono tra lucidità del disvelamento e fascino della narrazione, tra freddezza dell'enunciato e calore della partecipazione, tra distrazione dello sguardo e attrazione dell'eros. Da questo atteggiamento schizoide, che percorre ogni elemento della messa in scena, dalla recitazione dello splendido Anthony Higgins alla funzionale colonna sonora di Michael Nymann, che spazia da Henry Purcell a Philip Glass, è nato, “rara avis”, un film classico in forme d'avanguardia o, se si preferisce, un film d'avanguardia in forme classiche.

CINEMA e PITTURA

i  lunedì del  LUX   febbraio-aprile 2004