Il mondo di Arthur Newman (Arthur Newman)
Dante Ariola -  USA 2012 - 1h 41’


Prendete il Fu Mattia Pascal di Luigi Pirandello, rivisitatelo, aggiungete qualche snodo narrativo tipico di certo cinema indipendente British/American, date il tutto in mano ad un ottimo cast con a capo lo straordinario Colin Firth e l’opera prima di Dante Ariola è praticamente pronta. Intendiamoci, il film è un dramma filosofico/intellettuale riuscito ed interessante per più di tre quarti della sua durata che verso la fine, a causa di una piega non proprio limpidissima che prende la sceneggiatura scritta da Becky Johnston, finisce con il far perdere incisività ai bellissimi personaggi fin lì raccontati, risultando un po’ troppo lungo.
Il pretesto iniziale è molto semplice e al tempo stesso geniale: un uomo disilluso dalla propria vita a causa di un lavoro poco gratificante, un figlio arrabbiato e deluso che cerca di ignorarlo in ogni modo, una ex moglie risposata e una nuova compagna piuttosto noiosa, decide di fingere il proprio suicidio e rifarsi una vita sotto il nome di Arthur Newman. L’uomo e la sua nuova identità saranno quello che hanno sempre sognato di essere: un campione di golf. Fin qui nulla di nuovo rispetto al romanzo di Pirandello, fino a quando, proprio all’inizio del suo viaggio, Newman incontra Mike, una giovane donna che finge di essere un’altra persona per fuggire dalla propria vita. Sarà incontrandosi che i due daranno inizio ad un intenso road movie che li porterà a "rubare" per pochi attimi le identità di alcune coppie che incontreranno lungo il loro percorso, alla ricerca di una vita che possa soddisfare le proprie aspettative o, semplicemente, alleviare il costante, inspiegabile dolore che li opprime.
Ariola racconta questa favola amara con immagini esteticamente molto belle e con metafore originali e piuttosto stimolanti. Nei movimenti della sua macchina da presa c’è tutta la potenza del cinema d’autore senza mai forzare troppo la mano e senza mai dimenticarsi del proprio pubblico. Un discorso sull’identità, sul capire cosa non si è ancor prima di capire cosa si è veramente. L’essere che si qualifica attraverso il non essere e, tirando le somme, finisce per constatare se tutto ciò coincide con ciò che si vuole, ciò che si è voluto e quello che si ha oggettivamente in mano. Il tutto reso attraverso una sceneggiatura essenziale che non esagera mai con dialoghi inopportuni, lasciando alla macchina da presa e al suo regista il ruolo di indagatore attraverso l’immagine, attraverso il non detto. Peccato che tutto ciò si vada ad infilare in un prefinale dallo stile incerto ed indeciso che va ad inficiare su quanto di buono si era visto e vissuto fino a quel momento. Per fortuna l’ultima immagine riprende in mano le redini di un discorso che sembrava essersi perso, riportando il tutto sul binario giusto e regalando al pubblico una pellicola ed un regista di cui in futuro sentiremo parlare spesso.

Luca Lardieri - Close-up.it

  «Per paura di restare solo/ fai così tante cose/ che non sono affatto da te». Così recitano i versi di Richard Brautigan che Colin Firth legge fugacemente in una scena di Arthur Newman: compendio didascalico di un film che fa del camuffamento uno stato esistenziale. Il fu Wallace Avery, impiegato incolore e fallito nelle categorie padre, marito, amante e giocatore di golf, butta nell’oceano la sua identità, si finge morto e si reincarna nelle polo pastello dell’eponimo Arthur. Sulla strada fra la Florida e l’Indiana s’imbatte in Mikaela detta Mike: pure lei ha fatto carte (d’identità) false per non essere se stessa, così il road movie l’accoglie sul sedile del passeggero.
Lui, mite e impacciato, trova in lei, brunetta scatenata, qualcosa di travolgente, ma l’amore lo fanno solo (tra)vestiti, impersonando i padroni di case momentaneamente vuote. I britannici Firth ed Emily Blunt si calano, non per la prima volta, in panni yankee, e singolarmente ce la mettono tutta per dare credibilità a personaggi maldestramente sceneggiati: quel che non funziona affatto è la chimica fra i due, protagonisti di scene erotiche tra il serio e il faceto e di una ripetitiva sequela di abbandoni e riconquiste. Ci si appassionerebbe quasi di più a chi è rimasto a casa, al legame imprevisto fra l’amante abbandonata di Wallace e il di lui figlioletto che riscopre il padre tramite l’assenza, se non fosse solo una sottotrama di riempimento. E alla fine, dopo la trasgressiva corsa, la morale familista è dietro l’angolo.

Ilaria Feole - FilmTV

promo

Wallace Avery (Colin Firth) è un uomo insoddisfatto che odia la sua vita e il suo lavoro; la sua ex moglie e suo figlio adolescente, invece, odiano lui. Un giorno, ad un tratto, decide di liberarsi dalle catene invisibili che lo stringono e si crea una nuova identità dopo aver inscenato la sua morte. Diventa così Arthur Newman e si trasferisce a Terre Haute, nell'Indiana, dove si presenta come professionista nel mondo del golf. I suoi piani vengono però sconvolti dall'incontro con Mike Fitzgerald (Emily Blunt), una ragazza fragile che ha deciso, come lui, di rompere con il passato. Insieme, un po' per gioco e un po' per necessità, Arthur e Mike cominciano ad occupare abusivamente alcune case disabitate, fingendo di essere i veri proprietari…
Ariola racconta questa favola amara con belle immagini, movimenti di macchina impeccabili e metafore stimolanti. Il susseguirsi degli eventi non si manifesta infatti linearmente e ciò porta anche lo spettatore a ricercare, in un azzeccato processo partecipativo, la propria identificazione.  Un Fu Mattia Pascal, rivisitato in stile cinema indipendente British/American e sorretto da un ottimo cast con a capo lo straordinario Colin Firth.

film del week-end precedente

 LUX - settembre 2013

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