L'isola (Ostrov)
Pavel Lounguine
- Russia 2006 - 1h 52'

Venezia 63° - Fuori concorso

   Il cinema amaro e sornione di Pavel Lounguine (Taxi Blues – 1990) con gli anni si è fatto sempre più cupo e incombente. Da Luna Park (1992) a Oligarkh (2002) la cruda realtà sociale della Russia era stata messa a nudo da racconti metaforici di forte impatto. Ora con Ostrov–The Island la violenza si fa pretesto per intessere un’avventura dell’anima intrisa di uno sconvolgente senso religioso, di un’ansia di redenzione interiore legata a reconditi rimorsi.
Gli avvenimenti che aprono in film fanno presagire un tormentato percorso esistenziale legato ad una colpa evidente: nel 1942 due marinai russi vengono catturati dai tedeschi. Per salvare la propria vita uno dei due (Anatoly) spara al compagno (Tikhon); la sorte è dalla sua parte anche quando riesce a sopravvivere all’esplosione della sua nave…
Quando la vicenda si sposta nel 1976 e il personaggio chiave è un vecchio monaco che si tormenta per i suoi peccati passati, si può intuire la sua identità e il legame con quanto successo trent’anni prima. Ma Lounguine spiazza ogni facile aspettativa perché affronta il tormento del suo protagonista con una complessità di relazioni e di elementi mistico-sacrali che configurano una realtà paradossale e misteriosa.

Nella comunità monastica, che vive isolata su un’isola del Mare Bianco, Anatoly è considerato uno “starets” (quasi santo) e la forza della sua saggezza e della sua preghiera sono la chiave di volta per il dolore di quanti chiedono il suo conforto. Non solo illuminanti consigli ma veri miracoli quelli che questo vecchio, sporco e ieratico, riesce a dispensare. Gli altri monaci subiscono, ora di buon grado ora con fastidio, la sua personalità, le sue bizzarrie. Anatoly purifica il suo vivere abitando solitario in una catapecchia, trasportando carriole di carbone, dormendo per terra scaldandosi al fuoco di una stufa; soprattutto pregando, chiedendo venia per i suoi peccati, recitando con fervore passi della Bibbia.
La sua sofferta meditazione diventa stagnante sofferenza per lo spettatore finché una inaspettata rivelazione imprime una svolta al lento enigma della sua espiazione e concede ad Anatoly di abbandonare serenamene la sua isola e il mondo terreno.

Il tocco metafisico di Ostrov ha un indiscusso fascino dostojevskiano e la cappa di tormentata spiritualità si compenetra con una memorabile suggestione figurativa: i colori freddi, lividi (quasi virati un bianco e nero in alcuni stralci) che avvolgono il peregrinare di Anatoly trovano parentesi di calda luminosità nei momenti delle celebrazioni religiose. Il santuario ortodosso, con la sue icone sgargianti alla vivida luce delle candele, lascia presagire la trascendente liberazione sui cui solo chi ha fede nella fede può contare.
Un’opera che chiude degn
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Fuori concorso di questa 63a Mostra e al cui margine affiora una curiosità metalinguistica: l’interprete Piotr Mamanov (con Lounguine già in Taxi blues), dopo anni di fulgida fama come attore e musicista rock, ha vissuto una drastica conversione religiosa. Da quasi dieci anni abita in un villaggio fuori Mosca, lontano dalla mondanità. Non rilascia interviste e, prima di questa “coerente” interpretazione, era apparso in pubblico solo per esibirsi in alcuni monologhi teatrali.

ezio leoni - Il Mattino di Padova  10 settembre 2006