Passion
Brian De Palma - Francia/Germania 2012 - 1h 40'

  

   Perché non piace ai cinefili un regista che ha fatto della cinefilia l’oggetto dei suoi film? Giustificare i fischi, non condivisibili, che hanno accompagnato la proiezione dell’ultimo film di De Palma Passion con l’apparente ingenuità della trama o con l’eccesso di stereotipi depalmiani, appare riduttivo.
Di fatto
De Palma, dopo aver occupato un posto di rilievo tra gli esponenti della New Hollywood, non gode più dei favori della critica, ma soprattutto della produzione statunitense (peraltro in buona compagnia: vedi Ciminofilm precedente in archivio, Coppola…), tanto è vero che per questo lavoro, che viene a cinque anni di distanza da Redacted, ha dovuto ricorrere ad una produzione franco-tedesca.
Il film è stato infatti girato a Berlino e racconta la storia di una letale lotta di potere tra due donne, Christine (Rachel McAdams) e Isabelle (Noomi Rapace) nello spietato mondo del business internazionale. L’estetica del dejà vu, della ripetizione e del recupero, che percorre tutta la filmografia depalmiana, raggiungendo la sua completa teorizzazione in
Femme Fatale del 2002, si ritrova anche in questo film, che è esso stesso un remake di Crime d’amour (2010) di Alain Corneau, ma rimanda anche nel titolo all’omonimo film di Godard (1982).
Anche qui l’ombra di
Hitchcock, assieme a quella del Mankievicz di Eva contro Eva, rimane sempre sullo sfondo, con riferimenti espliciti a Psyco (la doccia) e a La donna che visse due volte (per il personaggio della bionda Christine), enfatizzati dalle musiche di Pino Donaggio, che “rifanno” Bernard Herrmann.
Ma è soprattutto il cinema di De Palma che viene riproposto in una specie di “vertigo” autocitazionistica, in cui, nello scambio tra apparenza e smascheramento, si rimette in gioco tutto il suo cinema. Il tema del doppio (vedi
Sisters) viene riproposto sia nella prospettiva della presenza di una gemella, sia in quella della relazione professionale tra le due colleghe, sia in quella schizofrenica di due personalità che convivono nella stessa mente. Quello del sogno (vedi Doppia Personalità), qui enfatizzato dal filtro blu e moltiplicato in vari sogni concentrici, contribuisce a far sì che dimensione reale e onirica si intersechino e si confondano. E ancora ritroviamo il travestimento (Vestito per uccidere), la maschera, il feticismo, il voyeurismo (Omicidio a luci rosse) e soprattutto l’accento posto sulla soggettività della visione e sulla moltiplicazione dei punti di vista, marche enunciative tipiche del cinema di De Palma.

Basti pensare a come è stata costruita la scena dell’omicidio con la triplice finestra dello split-screen, in cui vediamo da una parte Christine nella doccia, dall’altra il volto di Isabelle con il dettaglio degli occhi e dall’altra ancora il balletto
Il pomeriggio del fauno di Debussy, che a sua volta si svolge in un set composto di tre pareti con i ballerini rivolti verso gli spettatori, come se guardassero in una parete a specchio, contribuendo a confondere le capacità percettive di chi guarda.
Ma
Passion non è soltanto questo: già nel lunghissimo piano sequenza in soggettiva che apre Omicidio in diretta (1998), De Palma ci aveva dimostrato come l’apparente onnipotenza dello sguardo, lì portato ai suoi limiti estremi, non ci permetta in realtà di vedere l’essenziale (l’omicidio), in Redacted aveva spostato la questione sulla distanza tra soggetto e oggetto della visione con una riflessione sull’immagine e sul modo in cui può essere manipolata attraverso le nuove tecnologie. Passion apre sul logo della Apple, dietro il quale agiscono due “femme fatale”, disposte a tutto pur di mordere il boccone del successo. Lo spot che lancerà la carriera di Isabelle come creativa, viene girato tramite un telefonino portato nella tasca posteriore degli attillatissimi jeans dalla sua collaboratrice, che cattura così lo sguardo (in macchina!) dei passanti che le sbirciano il sedere. MacBook, iPhone, telecamere a circuito chiuso (vedi l’incidente nel garage) permettono a De Palma di orchestrare sguardi, l’uno dentro l’altro, manifestazioni di un mondo in cui sembra esserci sempre un altro punto di osservazione nascosto. Non a caso il film, quasi interamente girato in interni, fatti di superfici riflettenti di vetro e acciaio, di Berlino utilizza gli spazi del Bode Museum e la DZ Bank di Frank Gehry, uno dei maggiori esponenti della corrente decostruttivista, creatore di spazi incongrui, che costringono la percezione visiva a un continuo riconfigurarsi dell’occhio.

L’impressione complessiva è che, nel gioco estremo di rivedere il proprio cinema e il proprio amore per il cinema, attraverso la lente prismatica dei nuovi strumenti di visione di massa (smartphones, computers..), l’ipertrofia citazionista non faccia che portare a guardare dentro il proprio abisso, dove, come nel triplo, quadruplo sogno di Noomi Rapace, si riconfigura continuamente quello che crediamo di aver visto. E se questo spinge De Palma verso un cinema del futuro, allo stesso tempo non può che spiazzare chi cerca nella “passione” cinefila i segni della nostalgia.

Cristina Menegolli - ottobre 2012 - pubblicato su MCmagazine 33