La passione di Cristo (The Passion of the Christ)
Mel Gibson
- USA 2003 - 2h 5'


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    Il cinema crea le storie o le rappresenta? È il giusto amalgama di queste due componenti quello che fa scaturire l’emozione, ciò che trasforma lo script in racconto per immagini, che fa (ri)vivere un’idea narrativa attraverso uno “stile che crea il senso” (Bazin). Del calvario di Cristo la nostra cultura è permeata in educazione catechistica e riflessione antropologica e nell’affacciarsi al discusso film di Mel Gibson non ci può essere la sorpresa di un racconto inaspettato. E allora l’immergersi nella fascinazione cinematografica de La passione di Cristo diventa un’esperienza che mette a confronto la nostra sensibilità religiosa e il nostro gusto cinefilo. Sin dalle prime sequenze, tra gli ulivi del Getsemani, è evidente che l’approccio dell’infervorato regista americano (un contatto “salvifico” con la fede nella sua vita privata, un padre integralista preconciliare…) gioca sull’impatto di una fisicità pregnante, su oggetti e corpi che riempiono lo schermo (Gesù a colloquio con Pietro, Giovanni e Giacomo, la sua mano che sfiora l’albero, primi e primissimi piani che ci mettono in stretto contatto con la tensione del momento), su incalzanti ritmi di montaggio e suggestivi movimenti al rallenti, su una trasposizione che travalica la fedeltà della lettura evangelica e introduce la presenza di un Satana androgino incombente ed enigmatico, che avrà una sua parte “fuorviante” sulla strada verso il Golgota.
Entrati repentinamente nell’umus della passione (il fatidico bacio di Giuda dà il via al racconto e ad una serie di topoi evangelici - l’episodio dei trenta denari, l’impiccagione, il triplice rinnegare di Pietro - che nulla aggiungono alla ricca iconografia del Cristo schermico), siamo sedotti da una apparenza di verosimiglianza storica che fa uso di aramaico e latino (con relativi sottotitoli), ma che poi modifica per puro senso estetico i costumi dei soldati romani, riduce gli stessi ad imbecilli sprezzanti degni solo delle tavole di Asterix, offre eleganza e turbamento interiore a Pilato (e signora), inequivocabile ghigno brutale al ribelle Barabba, trucidi riferimenti ai testi apocrifi per suggellare la sanguinaria visionarietà del tutto.

Se da una parte Gibson sembra affrontare La Passione di Cristo (anzi “del Cristo” , come recita il titolo originale The Passion of the Christ, con chiare implicazioni escatologiche) come “storia nuova” per lo schermo e per il pubblico, dall’altra non si può non rimanere interdetti da un “apostolato” per immagini che accenna al cammino profetico di Gesù solo in rapidi flashback (in fondo la parte più riuscita del film) e che si concentra sul sadismo iperrealista della flagellazione, sulle sevizie nell’ascesa al Calvario, sulla brutalità ostentata della crocefissione.
Certo la “fabula” della passione del Cristo è stata forse edulcorata, nel nostro immaginario, per quanto riguarda la sofferenza del Dio fatto uomo (sono i Vangeli stessi, per primi, a non indulgere sull’horror!) , ma l’esibizione “impudica” dello scempio della carne in cosa arricchisce il nostro bagaglio di fede? Quanto interagisce nella dinamica di una spiritualità salvifica a cui è concesso qui solo una carrellata finale nella luce del sepolcro e un profilo (un po’ prosaico e inerte) del volto del risorto?

E poi, visto che parliamo di cinema e non di esegesi biblica, perché l’attualizzazione di un fatto storico deve avere per forza il taglio sfacciato del reportage televisivo? Perché, senza cadere nella banalità delle critiche verso un antisemitismo inesistente, bisogna comunque ritrovarsi di fronte ad un manicheismo multietnico da operetta? Perché alzare il livello effettistico (non bastava il ridondante tono splatter?) con manierismi di inquadrature, luci e musiche (insopportabile il roboante crescendo di una tecnosinfonia di canti, tamburi e strepiti)? Perché farci sentire blasfemi nel trovare tediosa (la fine cruenta de) La più grande storia mai raccontata. Insomma non è solo il discorso di un’iperbole rappresentativa che alla fine svilisce l’interiorità della storia stessa, non è lo scandalo di un film pasquale dato in pasto incondizionatamente ad un pubblico forse troppo ampio (nei paesi anglosassoni il film è stato vietato ai minori di 18 anni), non è il serpeggiante dubbio di cinica spettacolarizzazione commerciale. Una volta assuefatti all’impatto di una ferocia figurativa impressionante, se una passione non è davvero appassionante che “cinema” è?

ezio leoni - La Difesa del Popolo - 18 aprile 2004


Mel, potevi risparmiarcele!

Segnali di un cinema
cristologico ancora praticabile...

 • le inquadrature dal basso del Cristo che piomba, grondante di sangue, a terra: da videoamatore dilettante

• l’incipit buio e “confuso” nel Getsemani: il giusto taglio filmico per buttarci nella mischia di un dramma che sta per sopraffare i discepoli, l’umanità, lo spettatore

 • la commistione tra il personaggio dell’adultera e quello della Maddalena: una licenza autoriale che si riduce ad una inconsulta semplificazione, non certo tonificante nella visione della femminilità…

• l’artificio dei flashback a dare il tono del senso compiuto della venuta terrena del Cristo: una scelta stilistica solo intuita e non fatta crescere in vero senso cinematografico

• le indebite intromissioni del Satana androgino (Rosalinda Celentano): squarci di “dubbi e tentazioni” non certo in linea con il cosciente e coerente sacrificio del Cristo

• la figura di Maria: una sofferenza dolente e intensa, sempre con un marchio di sincerità che il volto di Maia Morgenstern rende memorabile

• il corvo che colpisce negli occhi il cattivo ladrone: vangeli apocrifi con un tocco di Roger Corman?

• l’effettaccio splatter della nube di sangue ed acqua che esce dal costato: l’iterazione delle scene truculente, delle lacerazioni delle frustate, degli schizzi al conficcarsi dei chiodi non era già sufficiente?

• il colpo del flagello che si abbatte, scheggiandolo, sul tavolo del centurione: un’inquadratura essenziale per far percepire la devastante violenza dei colpi che martorieranno il corpo di Gesù
 

• la goccia di pioggia attraverso cui si distorce la visione dall’alto del Golgota e che poi si spiaccica al suolo: sarà anche leggibile come la lacrima di Dio che cade dal cielo, ma è di un kitsch figurativo insostenibile!

• la fugace efficacia di un montaggio alternato che lega in parallelo le mani di Cristo trapassate dai chiodi, le sue stesse mani che (nel flashback) si aprono verso gli apostoli (mentre si dichiara “via, verità e vita”), quelle di Maria che si contraggono nell’accarezzare (con lo sguardo) il martirio del figlio