Pietà
Kim Ki-duk - Corea del Sud 2012 - 1h 44'

Leone d'oro

    

    Occorre ripercorre il cammino cinematografica di film precedente in archivioKim Ki-dukfilm precedente in archivio per non trovarsi spiazzati di fronte alla furia vendicatrice che anima il nuovo Pietà, vincitore al 69° Festival di Venezia.
L’impatto che aveva accompagnato la presentazione, sempre al Lido (2000) di
L’isola, era stato altrettanto scioccante: allora non ci aveva del tutto convinti, nella sua sconvolgente, masochistica brutalità (con quel “cespo" di ami da pesca a martirizzare la gola e le cavità più intime di una giovane donna). Un appannamento critico riprovevole poiché poi la personalità autoriale del regista coreano esplose poi ai nostri occhi attraverso preziosi quadri cinematografici quali Primavera, estate, autunno, inverno... e ancora primavera, Ferro 3, La samaritana e fu chiaro come il senso di colpa, il perdono, la redenzione al pari del desiderio d’amore e del dramma della solitudine fossero sentimenti, situazioni che solo in un cinema estremo come il suo potevano trovare compiuta, intesa espressione.
Con questo suo 18° lavoro Kim Ki-duk ci immerge “senza pietà” in un ambiente degradato e in una realtà sociale manifatturiera fatta di artigiani, piccoli operai ridotti sul lastrico in un paesaggio urbano (Seul) non certo a misura d’uomo, che perde sempre più ogni prospettiva di “respiro” architettonico per ridursi ad un formicaio di palazzi fatiscenti e precarietà esistenziali.

È qui che opera Kang-do cinico esattore di debiti insoluti, azzerabili solo mediante un perverso meccanismo assicurativo: la rottura di una gamba, di un braccio servono a rimborsare il prestito, lasciandosi inesorabilmente alle spalle uomini menomati e famiglie distrutte. Kang-do non prova alcuna pietà, non si pone domande. Si adagia nella sua squallida solitudine, vive in una casa imbrattata di rifiuti organici, in un letto che ne ospita le onanistiche pulsioni sessuali.

L’arrivo di una donna che si dichiara sua madre, e che si mette al suo totale servizio per ripagarlo dell’abbandono che gli ha riservato alla nascita, incrina sempre più fortemente la realtà esistenziale di Kang-do che fatica ad accettare la nuova situazione e tanto più il nuovo rapporto umano che lo coinvolge.


Allo spettatore sono lasciati vari indizi di un sottotesto che è in sincrono con la dinamica della narrazione, ma che risultano perturbanti rispetto alla linearità dell’evoluzione del racconto stesso. Come si innesta in esso l'incipit avvolto nel buio (una sedia a rotelle, un gancio, una catena, un suicidio...), quale significato attribuire a quell'anguilla (tenuta amorevolmente nell’acquario e poi affettata per pranzo), a quella gallina, a quel coniglio? E perché mamma Mi-Son cuce un maglione sottodimensionato per Kang-do? Quale importanza attribuire all’albero sotto cui la donna chiede a Kang-do di scavare in futuro la sua tomba?
Non tutte le domande devono avere per forza risposta in
Pietà, ma il senso tragico del titolo diventa sempre più pregnante mentre il dolore “di ritorno” delle vittime viene via via a scardinare l’asettica esistenza di Kang-do e il rapporto madre-figlio esplode in rivelazioni di crudeltà e vendetta. La pietà è quella che Kang-do non ha saputo cogliere, è quella che riscopre quando ormai è troppo tardi, è quella che lo spettatore percepisce, sofferta, verso questi esseri umanai abbrutiti oltre ogni logica, verso una (in)civiltà che ha perso ogni baricentro morale.
Ma nell’accostarsi al cinema di Kim Ki-duk non bisogna, travolti dal trauma etico, perdere di vista la forza figurativa dell’insieme: quei vicoli sporchi e angusti, quelle officine “chiuse” al mondo da serrande scalcinate, quelle palazzine degradate e dismesse fanno da contesto essenziale al dramma dei protagonisti, così come quella striscia di sangue che si disegna sulla strada nel finale “firma” un percorso di straziante “punizione” per la quale non resta che la pietà.

ezio leoni - novembre 2012 - pubblicato su MCmagazine 33