Più buio di mezzanotte
Sebastiano Riso - Italia 2014 - 1h 38’

Semaine de la Critique - CANNES 2014


  Davide ha quattordici anni e non è un adolescente come gli altri. C’è qualcosa in lui, nel suo aspetto, che lo fa somigliare a una ragazza. Davide ha quattordici anni quando scappa di casa. Il suo istinto, o forse il destino, lo porta a scegliere come rifugio il parco più grande di Catania: Villa Bellini è un mondo a parte, che il resto della città fa finta di non vedere. Il mondo degli emarginati, a cui appartengono anche La Rettore e il suo gruppo di amici, coetanei di Davide e come lui scappati dalle rispettive famiglie. Per loro la vita di strada è una sfida continua alle convenzioni, ma soprattutto l’affermazione della propria diversità. I piccoli furti e la prostituzione sono il prezzo da pagare. Quando Davide viene accettato in quella famiglia allargata, il passato da cui stava fuggendo sembra svanire definitivamente. Ma non è così. I ricordi della sofferenza vissuta in famiglia, segnata dalla presenza di un padre violento e di una madre amorevole ma inerme, riemergono uno dopo l’altro, così dolorosi che in confronto le avventure di strada sembrano quasi un gioco. Fino a quando il passato irrompe nel presente, e a Davide tocca la scelta più difficile. Di fronte alla quale si trova, questa volta senza possibilità di fughe o rinvii, da solo. Ispirato alla vera storia di Davide Cordova, in arte Fuxia, drag queen di Muccassassina, storico locale di Roma, la pellicola vuole raccontare l’emancipazione e la formazione di un adolescente. La regia dell’esordiente Sebastiano Riso non abbandona mai il protagonista, “pedinandolo” tra le cose che lo fanno soffrire per comprendere al meglio il suo punto di vista, ma mantenendo anche una certa forma di pudore e allontanando lo sguardo della macchina da presa quando la violenza irrompe nella vita di Davide.

 

  ...Fin dall’inizio ero consapevole che nell’affrontare questo tema avrei dovuto confrontarmi con il mio passato (ponendo domande a me stesso: come avevo vissuto quell’età così delicata, quando cominci a chiederti quale sarà il tuo posto nel mondo?), ma anche con la mia esperienza di spettatore. C’erano, a indicarmi la strada, film che mi avevano cambiato, e che avevano lavorato dentro di me, per farmi diventare quello che sono oggi. Autori come Rossellini, Truffaut, Tarkovskij, Gus van Sant, e i loro piccoli eroi, dall’Edmund di Germania anno zero ad Antoine Doinel, da Ivan all’angelo biondo di Elephant, erano lì a testimoniare che se si sceglie un adolescente come protagonista del proprio film, bisogna essere “follemente sinceri”, come Truffaut stesso scriveva in una sua lettera. Follemente sinceri significa per me non usare trucchi né manierismi. E significa avere rispetto per l’attore che sta di fronte alla macchina da presa, che nel mio caso – come negli esempi illustri che ho appena elencato – per la prima volta si trovava nel mezzo di quello strano mondo parallelo che è un set cinematografico. Sulla base di questa duplice convinzione, la sincerità e il rispetto, ho scelto uno sguardo preciso, che non abbandonasse mai il protagonista, che lo tenesse sempre dentro l’inquadratura, e lo seguisse (o forse, per usare una parola cara al neorealismo italiano: lo pedinasse) dappertutto, senza arretrare di fronte a nulla. Quello che vedeva lui, quello che lo faceva soffrire, dovevo vederlo anche io, e doveva vederlo lo spettatore, e con lui dovevamo soffrire, per poter veramente comprendere. Ma oltre a questo c’era il rispetto, e una certa forma di pudore che a mio avviso diventa sempre più importante in un mondo che ha perduto il senso della vergogna, e si ciba di immagini come in un banchetto dalle portate eccessive. Il pudore mi ha tenuto a distanza in alcuni momenti del film, uno in particolare, quello in cui Davide – il nostro piccolo eroe – viene violentato. Avrei potuto mostrare quella scena così com’era, brutalmente, senza mediazioni. Forse avrei seguito più da vicino il comandamento di Truffaut. Ma in quel caso, pensando a Godard, quando scrive che “ogni carrello è una questione di morale”, ho capito che dovevo fermarmi, che dovevo girare attorno a Davide, senza sfiorarlo mai, invece di stargli addosso, in quella stanza dove avveniva la violenza, perché altrimenti anche io sarei stato violento nei suoi confronti, anche io mi sarei approfittato di lui, usandolo al solo scopo di scandalizzare. Per lo stesso motivo, mettere tra me e lui una piccola distanza che in realtà aumentava lo spazio della tenerezza, ho usato sempre, dal primo all’ultimo minuto del film, la macchina a mano evitando di incollarmi al suo volto, preferendo spesso i campi medi ai primi o ai primissimi piani, e un montaggio con pochi stacchi, che riproducesse il più fedelmente possibile il ritmo e il tempo della vita, senza forzature.
Infine ho deciso di girare il film utilizzando una camera digitale dell'ultima generazione ma accoppiata a lenti anamorfiche degli anni Settanta, con tutte le loro imperfezioni cromatiche e ottiche, per rappresentare al meglio questa tribù di ragazzi imperfetti e diversi, e per comunicare allo spettatore la sensazione di qualcosa che sta accadendo oggi, ma è accaduta anche in passato, e potrebbe accadere di nuovo, in un futuro nemmeno troppo lontano. Una storia fuori dal tempo, e quindi per forza di cose possibile in ogni tempo, perché il mondo è sempre stato pieno di adolescenti come Davide che soffrono e combattono, non sapendo se riusciranno a sopravvivere o se invece, da quella lotta impari, usciranno sconfitti.

Sebastiano Riso


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 LUX - maggio 2014

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