Shultze vuole suonare il blues (Shultze Gets The Blues)
Michael Schorr
- Germania 2003 - 1h 49'

Premio speciale per la regia - CONTROCORRENTE


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   Una pianura piatta disegnata unicamente dai mulini a vento, un paese minerario della Sassonia, tre anziani minatori, nel giorno del pensionamento, commossi dalle canzoni di commiato dei compagni di lavoro e perplessi di fronte al regalo di addio: tre orribili lampade ricavate proprio dal materiale che presumibilmente avevano estratto per tutta la vita. Un inizio, quello di Shultze Gets The Blues, che, sia per quanto riguarda la situazione che il contesto ambientale, crea delle aspettative di un certo tipo sul possibile sviluppo narrativo,>> aspettative che vengono però disattese non appena il regista ci fa conoscere più da vicino i tre personaggi, che, con la loro laconicità alla Kaurismaki, comunicano simpatia più con la gestualità e la fisicità che con le parole.
Il passaggio continuo da un registro malinconico e a volte drammatico a uno ironico e a volte comico è la cifra stilistica di questo film equilibrato, gradevole e interessante, che giustamente è stato premiato per la regia. L’equilibrio con cui il regista conduce la narrazione è dato dalla sua capacità di rappresentare la drammaticità delle situazioni attraverso l’ “umorismo” inteso in un’accezione quasi pirandelliana, creando una miscela di tristezza e comicità, soprattutto nel delineare il personaggio di Schultze, che ad alcuni ha fatto pensare a Buster Keaton. “Il mio scopo era quello di trovare una vena malinconica che non fosse mai tragica”, ha dichiarato Shorr alla conferenza stampa.
La gradevolezza è data dalla bellissima fotografia (Schneppat) e dalla recitazione degli attori: è un film di emozioni che passano attraverso gli attori, la storia, ma anche attraverso l’occhio e il modo in cui il regista ci fa guardare i paesaggi della Germania e della Louisiana così stranamente affini. Ed è interessante il modo in cui il giovane regista di Brema, pur con la consueta leggerezza, spazia da temi di carattere intimistico come la vecchiaia, la morte, il viaggio di conoscenza, a temi di tipo sociale, in quanto ci mostra un volto della Germania post-caduta del muro di Berlino e dell’America, che raramente capita di vedere al cinema. A detta di Schorr non è tanto la situazione attuale della Germania, con le sue disuguaglianze sociali e le sue aree di degrado e arretratezza culturale, che gli interessava rappresentare, quanto la riconoscibilità di situazioni analoghe in ogni parte del mondo anche quello ricco per eccellenza come gli Stati Uniti appunto.
La vicenda del film si sviluppa in due parti. La prima interamente ambientata in Germania ci presenta il paese di minatori dell’alta Sassonia e le piccole realtà quotidiane dei tre amici pensionati, tra cui emerge la figura di Schltze che divide le sue giornate tra le visite all’ospizio dove è ricoverata la moglie e dove fa amicizia con un’altra ricoverata, che per prima sembra suggerirgli l’esistenza di mondi diversi dal loro e serate all’osteria con gli amici o in casa da solo con la sua fisarmonica. La rottura dell’equilibrio avviene quando, in una delle più belle sequenze del film, casualmente Schultze sente alla radio un brano di musica blues cajun, che inizialmente rifiuta, ma da cui poi viene attratto sempre più, al punto che la sua fisarmonica sembra portarlo da sola ad abbandonare le arie di polka e a suonare solo le note sentite alla radio. Nonostante il rifiuto dei suoi concittadini per quella “musica da negri” Schultze viene scelto per rappresentare il paese alla Fiera del Wurstel che si svolgerà in una cittadina del Texas gemellata con il suo.
Qui comincia la seconda parte del film che racconta il viaggio di Schultze negli Stati Uniti dal Texas, dove incontra una comunità di tedeschi immigrati ancora più conservatori dei suoi concittadini e altrettanto nostalgici delle vecchie polke, alla Louisiana, dove giunge scendendo il Missisipi tutto solo su una barchetta e dove alla fine troverà il luogo di origine di quella musica che aveva dato il via al suo bisogno di conoscere un mondo diverso dal suo. Non importa se al momento di conoscerlo Schultze (per l’emozione, la stanchezza...?) morirà, “così succede: un giorno sei vivo e il giorno dopo non ci sei più” gli aveva detto un’infermiera alla casa di riposo. Anche della morte, della fine del viaggio si può parlare con leggerezza, senza nulla togliere alla sua drammaticità.
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Cristina Menegolli - MC magazine 8 - ottobre/novembre 2003

TORRESINO - giugno 2004