Spy Game (The Spy Game)
Tony Scott - USA 2001 - 2h 7'

     La trovata divertente di questo kolossal di spie natalizie sta nel fatto che il glorioso e rugoso Robert Redford manovra tutto l'intrigo dalla stanza ovale della Cia, nell'ultimo giorno di servizio prima della pensione, come accade a Jack Nicholson in La promessa. Venticinque anni dopo il thriller post Watergate di Pollack I tre giorni del Condor, Bob si ritrova nel nido di vipere, ma stavolta dall'interno e non è più così ingenuo da credere che i giornali pubblicheranno la verità. Ma continua a chiedersi quale sia stato il ruolo della Cia nel grande paese. Il suo è quello paterno, legato alla sue tradizioni di amicizie virili (vedi Paul Newman), nei confronti di Brad Pitt, un giovane agente che all'inizio vediamo morituro in un carcere cinese di massima perfidia. Pur con baricentro nel quartiere generale di Langley, luogo di riunione degli agenti, non tutti limpidi, l'azione, che si situa nel '91, si sposta in flash back nei luoghi nevralgici dei decenni scorsi, dalla giungla del Vietnam, con uccisione di un ufficiale nord vietnamita, alla solita Berlino comunista alla caduta del Muro, all'inferno mediorientale del Libano con uno sceicco terrorista palestinese, la cui morte miete troppe vittime civili. Per tutti i gusti, in linea con il nuovo corso post 11 settembre. Spy Game di Tony Scott, il fratello meno considerato di Ridley, è uno strano incrocio tra il genere classico spionistico e la commedia, come testimoniano sia la sceneggiatura brillante e in understatement sia la struttura da commedia paradossale un po' come fosse un film Eagle degli anni 40, con un Alec Guinness aggiornato. Il fatto è che Pitt ha sbagliato una mossa e ora i capi lo vorrebbero scaricare senza sporcarsi troppo le mani, mentre il buon Redford ha solo 24 ore di tempo per salvarlo. Trattasi di un thriller d'azione e di ripensamento, in bilico tra le maniere forti e lo stile radical di Redford, che nel film si presenta senza illusioni o romanticismi, pronto a tutto pur di salvare l'amico: priorità per i fattori umani, con la consapevolezza però che alla Cia si sacrifica anche la propria psiche... 

Maurizio Porro - Il Corriere della Sera

     "Eri autorizzato a uccidere?" Così Charles Harker (Stephen Dillane) commenta le parole con cui Nathan Muir (Robert Redford) inizia a dare conto di Tom Bishop (Brad Pitt) allo staff che dirige la Cia. Siamo nel 1991, a ridosso del crollo del Muro, I servizi segreti - dice qualcuno nel film di Tony Scott - si occupano ormai di trattati commerciali e non più di ideali. A questi ideali, comunque, si riferisce quella tale domanda: Nathan: era autorizzato a uccidere, e a ordinare di uccidere, 16 anni prima in Vietnam? Molte cose si possono dire di Spy Game. Intanto, si può dire che Scott e lo sceneggiatore Michael Frost Beckner ne hanno fatto un film quasi d'altri tempi, nel senso migliore. Nella storia surriscaldata di Nathan e di Tom, infatti, non c'è traccia di hongkonghismo alla John Woo, patetico viagra narrativo spacciato per genialità. E non c'è nemmeno traccia di quel muscolarismo eroico che, nato supergiù con il sopravvalutato Heat di Michael Mann, é poi arrivato alla Weltanschauung adolescenzialtotalitaria e furbastra di Fight Club. In un paio d'ore di tensione spettacolare, Scott non fa mai un uso per così dire esibizionistico degli effetti speciali, sintomo e causa della malattia senile che minaccia di fare di Hollywood un Paese dei balocchi per dodicenni d'ogni età. Regia e sceneggiatura di Spy Game si rivolgono invece a un pubblico adulto, proponendosi come spettacolo incalzante e, insieme, come storia, come racconto dotato di senso in quanto racconto, e non in quanto somma di "meraviglie" digitali. E così siamo alla domanda di Harker, e alla risposta che Nathan non dà o che, almeno, Nathan non chiude, non argomenta. Se lo facesse, Spy Game perderebbe molto del suo senso, anche narrativo. Ribellandosi, decidendo d'agire in proprio, Tom ha rifiutato il sistema di ideali che, per lunghi anni, sono stati il fondamento dell'autorizzazione a uccidere, e anzi del dovere di uccidere. Ora tocca a Nathan seguirne l'esempio. La sua strategia di elusioni, il suo stare al gioco e capovolgere il gioco, il suo utilizzare la Cia contro la Cia, tutto questo é la sua propria risposta alla domanda da Harker. Ed é una risposta radicale, una risposta libertaria e individuale, che qua e là - pur in tono minore - riecheggia le atmosfere dell'ormai vecchio ma non dimenticato I tre giorni del Condor, girato da Sydney Pollack nel 1975 (proprio quando, secondo la sceneggiatura di Spy Game, inizia il sodalizio spionistico e omicida di Nathan e Tom). Nei sedici anni ripercorsi dal film attraverso il ricordo del suo protagonista, la sceneggiatura va a ritrovare alcuni dei momenti cruciali della nostra storia recente, quella che si interrompe nell'89, con la fine improvvisa del Grande Nemico. E la racconta, quella storia, immaginandone e mettendone in scena il lato oscuro. Dal Vietnam all'esplosione del Medio oriente, Spy Game sta tutto dentro la dimensione operativa della ragion di Stato. Non conta Nathan, nelle azioni che Nathan stesso coordina, e ancor meno conta Tom. Contano invece misteriosi soggetti legittimati a legittimare... Ossia: contano i portatori dell'autorità (giudicata) necessaria e sufficiente a decidere della vita e della morte di un uomo o di una donna. A loro Harker si riferisce con la sua domanda iniziale. E di decisioni di vita e di morte si tratta per tutto il film, che l'azione si svolga nel Sud Est asiatico, nella Germania divisa o nel Libano degli anni Ottanta. Secondo la migliore tradizione del cinema spettacolare e popolare di Hollywood, Scott e Beckner non ne fanno l'oggetto diretto, esplicito del loro racconto, ma ne disseminano le immagini e le situazioni, lasciandole programmaticamente sullo sfondo, "a disposizione" d'una lettura secondaria, d'una lettura che non si sovrapponga a quella più di superficie ma che, insieme, non ne venga impedita o diminuita. Basta pensare alla parte migliore anche in senso spettacolare stretto - di Spy Game, quella in cui dal passato riemerge la Beirut delle bombe e della guerriglia, e con una evidenza che sorprende per il suo realismo. Senza alcun intento dichiarato di critica, tuttavia la regia impone qui ai nostri occhi lo scarto tra la ragion di Stato - di qualunque Stato e di qualunque ragione si tratti - e il massacro, lo scempio dei corpi e dei lunghi. Per quanto in platea si possa badare solo allo spettacolo, tuttavia ci si ritrova tragicamente "dentro" la domanda di Harker, ma con la certezza che la risposta giusta sia quella di Tom prima e di Nathan poi. Ossia: ormai convinti che non ci sia chi la possa dare, quella tale autorizzazione, qualunque ideale pretenda di rappresentare.

Roberto Escobar - Il Sole 24 Ore

TORRESINO  febbraio 2002

rassegna di film in lingua inglese sottotitolati in inglese - ottobre 2011/aprile 2012
scheda inglese