Sweet Sixteen
Ken Loach - Gran Bretagna 2002 - 1h 46'


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    Pensate a Family Life (1971): la famiglia lacerata dalle incomprensioni generazionali, la sovversione alle regole della tradizione vista come seme della follia. Pensate a Riff-Raff (1990): la rabbia e la ribellione per un posto di lavoro sempre più precario, per una sicurezza sociale messa in quarantena. Cinema di protesta quello di Ken Loach, cinema di impegno civile, di difesa della working class. Un tipo di cinema oggi non solo “politicamente scorretto”, ma quasi anacronistico visto che in Sweet Sixteen per le certa classe sociale il lavoro è niente di più che un miraggio e che l’agognata pace familiare solo un sogno idealizzato, un’utopia affettiva da cui affrancarsi.
È straziante Sweet Sixteen perché quella “dolcezza” è una chimera per i sedici anni di Liam, che li compirà proprio in concomitanza con l’uscita dal carcere della madre. Il ragazzo fa di tutto per prepararle un ritorno “felice”: vuole comprarle una roulotte (in cui possa vivere lontana dallo squallore di truffe e spaccio in cui l’ha coinvolta l’uomo con cui viveva) e per trovare i soldi si invischia nel giro della droga (pizze e dosi in pronta consegna!), è costretto a spezzare il profondo legame che lo univa al suo unico, fraterno amico Pinball, si costruisce un avvenire da piccolo boss di quartiere così da sistemarsi alfine in un elegante appartamento di una nuova zona residenziale…
Ma i tasselli di una “riconciliata” esistenzialità sono destinati a non combaciare nell’abbrutente realtà dei sobborghi di Glasgow e l’incalzante, amaro procedere dello script del fido Paul Laverty (da anni firma “garante”, da
La canzone di Carla a Bread & Roses) non lascia spazio alla speranza: in un finale “aperto”, ma chiuso dall’ineluttabilità del fallimento e della disperazione, Liam è solo con se stesso, passeggia davanti al mare come l’Antoine Doinel di Truffaut ma non ha una corsa liberatoria alle spalle, non un fermo immagine che lo salvi da un futuro “bruciato”.
Il dolore che attanaglia di fronte a Sweet Sixteen è quello che nasce dal prendere atto della spirale occlusiva da cui Liam non sembra aver possibilità di uscita, dal confrontarsi con un appassionato amore filiale atrocemente spezzato, dal non avere parole, idee, risposte per tamponare uno strazio sociale che non ha la retorica della fiction, ma il lucido realismo di un dramma in immagini. Merito della perfetta sceneggiatura di Loverty (premiata a Cannes), della solita, verace regia di Loach, della straordinaria intensità dell’esordiente Martin Compston (ha rinunciato alla carriera di calciatore per quella di attore!), di un cinema dolente e commosso che nel dolce sarcasmo del titolo, nelle trepidante tenerezza di Liam, nella sua veemente risolutezza apre uno spiraglio, se non di concreto riscatto sociale per i protagonisti, almeno di rinnovata presa di coscienza di noi spettatori. Nell’accorato faccia a faccia di Loach con la disillusione e la brutalità dei suoi non-eroi, l’unica vittoria possibile è forse quella, virtuale, della nostra solidarietà.

ezio leoni - La Difesa Del Popolo  2 marzo 2003

 

promo

Ken Loach, torna a girare nella sua Scozia, per raccontare, con attori rigorosamente non professionisti, una storia di degrado e disagio sociale in una metropoli scozzese. L’adolescente Liam conta i giorni che lo separano dalla scarcerazione della madre, da tempo in carcere per storie di droga, e si adopera, con i soldi che riesce a guadagnare, per regalarle una roulotte. Ma nel mondo della microcriminalità non c’è posto per i sogni...

LUX -  febbraio-marzo 2003