The Beatles: Eight Days a Week
Ron Howard - USA 2016 - 2h 13’


   Ormai è fin troppo chiaro. Il monumento che il nuovo millennio sta costruendo intorno ai Beatles è colossale, smisurato, di gran lunga superiore a ogni aspettativa. E dire che, come racconta Richard Lester nel delizioso Eight Days a Week di Ron Howard , quando la United Artists gli commissionò il primo film dedicato al gruppo, gli chiese un prodotto buono, ma veloce e a basso costo. L’importante era farlo uscire entro luglio (era il 1964) perché molto probabilmente i Beatles sarebbero finiti con l’estate. Mai previsione fu più errata, ovviamente, e il film, A Hard Day’s Night, fu solo uno dei tanti capitoli della più grande storia musicale mai raccontata, eppure erano in molti in quel momento apre vedere che quella folle e incandescente meteora potesse svanire da un momento all’altro. Quanto durerà? Si domandavano in molti, e almeno in parte se lo chiedevano anche gli stessi Beatles. Del resto un fenomeno del genere non si era mai visto prima, nessuno era preparato, nessuno sapeva collocarlo, prevedendo il seguito della storia.
Il film racconta con dovizia di particolari, con immagini già note e altre inedite, l’euforia dei primi anni, di quella meravigliosa e irripetibile “epidemia” (come la chiamavano, preoccupati, i ben pensanti) che aveva contagiato l’intero universo giovanile. Ci ricorda e descrive le incredibili, vertiginose proporzioni del fenomeno, spiega perché la meteora non svanì nello spazio di una stagione e la spiegazione è allo stesso tempo semplice e struggente. I Beatles ce l’hanno fatta perché erano brave persone, intelligenti ed empatiche, perché non si sono mai accontentati di quello che avevano appena realizzato, perché sono stati capaci di voltare pagina decine di volte, nel giro di pochissimi anni, perché erano uniti e si sostenevano l’uno con l’altro.
Facile, potremmo dire, fare un bel film avendo a disposizione quello scintillante materiale, che sappiamo bene essere irresistibile, da qualsiasi angolazione lo si prenda, materiale ottenuto col benestare degli stessi Beatles: ovvero dei due sopravvissuti, Ringo e Paul, e delle vedove Harrison e Lennon, anzi prodotto dalla Apple, con autostrade aperte a ogni indagine storica. Ma Howard ci mette passione, è onesto almeno quanto la storia che vuole raccontare, e in un certo senso mette ordine in quella aggrovigliata ma tassa che ha deciso il destino della cultura pop dei nostri tempi. E lo fa seguendo una sorta di diario di bordo delle esibizioni dalbvivo, tra urla, pericoli, estasi collettive e il progressivo estraniamento dei quattro da quella abnorme e insostenibile pressione. Belle le interviste aggiuntive, soprattutto quelle a Whoopi Goldberg e alla storica Kitty Oliver che mettono in luce un aspetto meno analizzato della vicenda, ovvero il ruolo del gruppo nei conflitti razziali che stavano devastando l’America nel 1964. Erano giovanissimi working class della periferia inglese eppure quando seppero che in un loro concerto nel sud degli Stati Uniti, a Jacksonville, sarebbe stato adottato un sistema segregazionista, dichiararono che questo non sarebbe mai avvenuto a un loro concerto. E l’ebbero vinta. I neri entrarono liberamente, e per alcuni di loro fu il primo contatto con i bianchi in pubblico.
Una canzone dopo l’altra, un concerto dopo l’altro, la storia cresce e sembra disegnare la conquista di un territorio nuovo. Lo spiega Lennon, in un’intervista del 1975 citata nel film: «La sensazione è che ci fosse una nave alla scoperta del Nuovo Mondo e che sull’albero maestro ci fossero i Beatles e dicevano: terra!».

Gino Castaldo - La Repubblica

   La full immersion nei live dei Fab Four dal Cavern Club nel 1963 a Saville Road nel gennaio del ‘69, cattura sudore, urla e significato di un fenomeno culturale pop che ha fatto la storia. Uno sguardo gentile sull’umanità del quartetto, su quell’essere corpi/voce/evento perenne, quel diventare puntini piccoli piccoli in mezzo ad una folla immensa, brulicante, sbracciante e feroce di fan.
I live, ossatura drammaturgica del documentario, sono la testimonianza di Ron Howard su coloro che sfondarono le mura dei teatri e aprirono la strada al live negli stadi per decine di migliaia di spettatori. Un continuo rilancio con l’apertura di interi brani, stralci, o anche soltanto ritornelli suonati e cantati dal vivo, recuperati grazie ad un’attività di raccolta ed archivio - One Voice, One world – che vede momenti buffi e concitati, travolgenti e inquietanti, dal palco delle Filippine a quello, ultimo, del 1966 a Candlestick Park di San Francisco, donato da una signora allora bambina seduta in prima fila che con un Super8 riprese anche la discesa finale dal palco di Lennon, McCartney, Starr ed Harrison. Tutto in un Dolby Stereo che travolge, singole piste ripulite digitalmente dove le chitarre di George e John finalmente vivono di vita completamente propria, e dove Ringo esalta tamburi e soprattutto piatti dal suo storico trespolo batteria.
La direzione che prende Howard non è però quella della memorabilia tout court (che c’è, e quando c’è fa lucidare gli occhi), ma di una storia che attraverso gli exploit mediatici, l’attenzione mondiale e i fari puntati addosso 24/24 (un singolo ogni tre mesi, un album ogni sei, e tour a go-go), fa emergere l’alchimia naturale dei ragazzi di Liverpool, il loro normalissimo, e allo stesso tempo codificabile dalle masse, approccio alla musica come “divertimento”. L’essere se stessi, battuta pronta e spontanea, magari irriverente ma sincera, quando poi i decenni a venire ci avrebbero mostrato eccessi provocatori artificiosi. Apice che si tocca quando i quattro interpretano con insana leggiadria il film di Richard Lester, A Hard Days Night (1964), gioco, impostura, e mise en abyme, del fenomeno Beatles, quasi ci fosse bisogno di parodiare popolarità, ossessione, e quell’inquadratura in controcampo del primo piano di una ragazzina qualunque che si urla e si tira i capelli al sentire/vedere un ciuffo di Fab Four.
Ascesa e poi declino attraverso il cinema, paradosso bizzarro quando oggi è mezzo che non serve quasi più a nulla, che arriva l’anno dopo con Help! (1965), manifesto creativo della forzatura produttiva, della parossistica e tarda consumazione di un’eterna epifania. Intanto Lennon, McCartney, Harrison e Starr hanno conquistato le masse con la freschezza di accordi e testi immediati, e ora si apprestano alla gloria eterna.
Beatles: Eight Days a Week è punteggiato di copertine di lp che ripercorrono carriera e vendite dei Fab Four. Così come Rubber Soul spiazza fan e critica, l’ottavo album Sgt. Pepper’s Lonely Hearts Club Band consacra il mito e sancisce la definitiva ricerca solista dei quattro. Howard sta lontano da gossip e polemiche, mostra la pazienza di Brian Epstein e George Martin di fronte alla frattura e ai cambiamenti sonori del gruppo, non cita mai la signorina Yoko Ono, allunga il percorso con la polemica rintuzzata da Lennon (una battuta sui Beatles più grandi di Gesù) che fa andare a rotoli l’ultimo tour americano. Perché al regista premio Oscar interessa molto di più il lato A della vicenda Beatles (c’è l’ok di eredi sparsi su royalty e immagini), la magia degli accordi di Love me do o Ticket to ride, o di quando al Gator Bowl di Jacksonville l’11 settembre 1964 si misero lì tutti e quattro di fronte alle telecamere, come fosse un consesso pellerossa, affermando che “la segregazione razziale non esiste nei nostri concerti”, così neri e bianchi si mescolarono in una memorabile serata che altrimenti li avrebbe visti separati in sezioni apposite come sui bus e al ristorante. Del resto Howard lo ha spiegato più volte in questi mesi di lavorazione: “questo documentario è dedicato soprattutto a coloro che non c’erano”. Scarto temporale, sinfonia visiva, Beatles – Eight Days a Week disegna già un suo simbolico “the end” ben prima delle note di Don’t let me down sul tetto londinese con John impellicciato, George in pantaloni verdi, Ringo in impermeabile rosso e Paul barbuto in nero, quando Lennon, pressappoco nel ’64, ancora sorridente e scanzonato, vive con spensieratezza l’esposizione planetaria e dichiara: “Quando finirà il successo? Beh, ci faremo una risata”.

Davide Turrini - Il Fatto Quotidiano


promo

Film evento sui quattro ragazzi di Liverpool che hanno conquistato il mondo. Il racconto delle imprese live della band dai primi giorni ai concerti che hanno fatto la storia della musica, dai tempi del Cavern Club di Liverpool fino allo storico Candlestick Park di San Francisco. La storia di come John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr si sono uniti diventando quel fenomeno straordinario che tutti conosciamo come "I Beatles." Un racconto costituito da preziosi filmati rari e inediti, che esplora il dietro le quinte della band, il modo in cui prendevano le decisioni, creavano la loro musica e costruivano insieme la loro carriera e mostra l'incredibile personalità e lo straordinario dono musicale che caratterizzavano ciascuno di loro. Per la prima volta vengono inoltre 30 minuti esclusivi della storica performance allo Shea Stadium del 15 agosto 1965, in quello che fu il primo concerto rock di fronte a più di 55.000 persone.

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LUX - settembre 2016

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