Donne senza uomini (Zanan bedoone mardan - Women Without Men)
Shirin Neshat - Germania/Austria/Francia 2009 - 1h 36'

Leone d'argento per la miglior regia

    Se tra cinema e arte contemporanea esiste un rapporto dialettico, di rispecchiamento reciproco, questo non significa però che tra i due ambiti non esista un punto di discontinuità forte, che riguarda non tanto il linguaggio quanto alcuni aspetti del dispositivo, quali il ruolo più o meno attivo dello spettatore, la “durata” e la mobilità/fissità del punto di visione. Questo spiega forse la delusione del pubblico e la freddezza della critica di fronte alle opere di due pur importanti ed affermati artisti contemporanei, Pipilotti Rist (Pepperminta sezione Orizzonti) e Piotr Uklanski (Summer Love, in concorso nel 2006), che, avendo probabilmente sottovalutato le esigenze diverse del dispositivo cinematografico, hanno presentato delle opere sicuramente interessanti, ma più adatte ad una Biennale Arti Visive che ad una Biennale Cinema. Anche se la questione sarebbe tutta da discutere.
Non è questo il caso di un’altra artista famosa a livello internazionale, Shirin Neshat, il cui film
Women Without Men è stato non solo molto applaudito dal pubblico, ma anche insignito del Leone d’argento.
In questi ultimi cinque anni mi sono posta di continuo la domanda su quale sia il confine tra cinema e visual art e me la pongo ancora oggi – dichiara l’artista in un’intervista a Il Manifesto (23 febbraio 2008) – ma soprattutto mi chiedo come realizzare qualcosa che non comprometta il mio linguaggio di artista senza risultare incomprensibile e troppo concettuale per il pubblico cinematografico, che è completamente diverso dal mio pubblico abituale.”
Shirin Neshat  è un’artista di origini iraniane (1957), che vive tra New York e l’Iran e che ha ottenuto molti riconoscimenti alla sua carriera, tra cui il Leone d’Oro alla Biennale di Venezia nel 1999.
Attraverso i suoi lavori (fotografie, ma soprattutto videoinstallazioni) ha analizzato le difficili condizioni sociali all’interno della cultura islamica, con particolare attenzione al ruolo della donna. Di fatto tutta l’opera di Neshat è caratterizzata dal rimando più o meno evidente alla propria esperienza personale di emigrata e a concetti universali quali l'identità e lo scollamento della personalità soggettiva.
Dal 2003 Shirin Neshat è impegnata in un ambizioso progetto video/cinematografico in due parti basato sul romanzo
Donne senza uomini (1989) di Shahrnush Parsipur, una scrittrice molto conosciuta in Iran, che nel film interpreta una piccola parte (la tenutaria del bordello).
I cinque video del progetto Mahdokht (2004), Zarin (2005), Munis (2008), Faezeh (2008) e Farokh Legha (2008) sono stati recentemente assemblati in un’unica installazione disposta in più stanze.Mentre re alizzava i video Neshat ha lavorato al lungometraggio presentato a Venezia. Il film si confronta quindi non solo con un testo letterario, ma anche con la videoinstallazione.
“…sono due tipi di costruzione molto differenti. Le videoinstallazioni sono state montate seguendo la logica della creazione di un gruppo di cinque narrazioni non lineari, che offrono uno sguardo sulla natura di ognuno dei personaggi… L’idea era che il visitatore potesse passeggiare da una stanza all’altra ed essere in grado di ricomporre la storia alla fine. Quindi in realtà il visitatore diventa il montatore. L’idea alla base della versione cinematografica era di realizzare una narrazione lineare… La sfida più grande è stata trovare un modo per fondere il mio lessico artistico nel linguaggio cinematografico…In un film la comprensione e la chiarezza sono essenziali, mentre in altre pratiche artistiche si incoraggia l’enigma e l’astrazione.” (da un’intervista a Eleanor Heartney in Art America).
Alla base del lavoro di Neshat c’è dunque una riflessione sul rapporto tra cinema e visual art.

ll film è incentrato sulle storie di quattro delle protagoniste del romanzo, donne molto diverse socialmente, ma accomunate dalla volontà di sfuggire a un passato “turbolento”, come lo definisce la regista, e di prendere in mano il proprio destino. Le loro vicende vengono raccontate attraverso un montaggio alternato fino a che tutte convergono misteriosamente verso un giardino di campagna. Il giardino (luogo che occupa una posizione centrale nella letteratura della tradizione persiana e islamica) diventa per loro un rifugio, un luogo di esilio, in cui possono staccarsi dal mondo esterno.



Alcuni personaggi sono ritratti in modo realistico, come Fakhri (interpretata da Arita Shahrzad, un’artista amica di Neshat), una donna borghese occidentalizzata e intellettuale, che decide di separarsi dal marito e Faezeh, che vede il suo sogno di avere una vita normale interrotto bruscamente dalla violenza subita, altri personaggi hanno un temperamento magico, più consono al realismo magico del romanzo, e sono tratteggiati in modo più surreale, come Munis, che si suicida per sfuggire alla prepotenza del fratello e trova la libertà dopo la morte, diventando un’attivista politica e Zarin, una prostituta che inizia a vedere i suoi clienti senza volto.


Per evocare il desiderio di libertà manifestatosi recentemente in Iran, Neshat ha voluto collocare le vicende personali delle protagoniste in un periodo storico molto importante per il suo paese, quello del colpo di stato del 1953, che, su iniziativa dei governi britannico e americano, rovesciò il primo capo di governo democraticamente eletto, Mohammad Mossadegh, e riportò al potere lo Shah, che avrebbe imposto 25 anni di crudele dittatura, concedendo al mondo occidentale di disporre a condizioni vantaggiose delle riserve petrolifere del paese e aprendo così la strada alla Rivoluzione Islamica del 1979.
Un tragico destino, preannunciato dal suicidio con cui si apre il film, incombe infatti sulle donne, che, una volta ritrovatesi nel giardino, si sentono realizzate e al sicuro e insieme creano una comunità utopistica, finché una di loro non si stanca e apre i cancelli del giardino ad altri. Il film è tutto costruito sull’intreccio tra mondi “interiori” ed “esteriori”, sottolineato anche dalla variazione dell’uso del colore, che dai toni cromatici vivaci del giardino passa ad una desaturazione nelle scene che mostrano Teheran e le manifestazioni per le strade (in realtà il film è girato a Casablanca).

Se lo sviluppo narrativo risente di un certo meccanicismo nell’alternarsi delle diverse storie, la costruzione perfetta dell’inquadratura, l’uso sapiente del colore e dell’illuminazione, uniti alla capacità di dare alle vicende delle singole donne una valenza universale, che va al di là del contesto geografico, ne fanno un film sicuramente originale, interessante e toccante, a cui forse non avrebbe guastato una maggiore ambiguità nell’enunciazione delle tematiche.
È proprio vero che il pubblico cinematografico preferisca la comprensione e la chiarezza all’enigma e all'astrazione?

Cristina Menegolli - MCmagazine 27 (ottobre 2009)

promo

Le storie intrecciate di quattro donne molto diverse socialmente, ma accomunate dalla volontà di sfuggire a un passato “turbolento” e di prendere in mano il proprio destino. Le loro vicende vengono raccontate attraverso un montaggio alternato fino a che tutte convergono misteriosamente verso un giardino di campagna. Il giardino (elemento fondamentale nella letteratura della tradizione persiana e islamica) diventa per loro un rifugio, un luogo di esilio, in cui possono staccarsi dal mondo esterno... Un film tutto costruito sull’intreccio tra mondi “interiori” ed “esteriori”, sottolineato la costruzione perfetta dell’inquadratura, dall’uso sapiente dell’illuminazione e del colore (dai toni cromatici vivaci del giardino alla desaturazione delle manifestazioni per le strade). Un'opera originale, efficace nell’enunciazione delle tematiche, affascinante nell'amalgama estetica di enigma e astrazione.

film del week-end precedente

TORRESINO - aprile 2010

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