Lo schermo mutante

Ezio Leoni

 
Dal cinema alla videorealtà:
spettacoli  e spettatori  dentro  e fuori la tv

corso di aggiornamento
febbraio-marzo 1991

La parola videorealtà è un termine di nuova accezione, coniato in questi anni di  tele-onniscienza in cui informazione e cultura sono legittimati solo via etere, direzionati da un tubo catodico e gestiti da un telecomando. È difficile, sull'argomento, non cadere nella retorica, anche perché, a livello teorico, linguistico-sociologico, i discorsi si riciclano da almeno un decennio. Così mi permetto un'autocitazione (Apocalisse a 24 pollici - 19801) nel dare per espresso ed acquisito tutto un bagaglio di confronti  massmediali su cinema-televisione e per riesumare il termine affine (ma vedremo subito il sottile distinguo) di immaginario collettivo. Se sono molti, e intuitivi, i punti di contatto tra le due espressioni (e i relativi concetti), ciò che li distingue, ciò che mi rende ostile il primo e fraterno il secondo, è la sublimazione, in quest'ultimo, dell'immagine come mezzo e fine di un percorso culturale, la sua apertura ad uno spazio onirico che plasma il reale e rigenera il fantastico, l'indipendenza dalle pastoie che il  bisillabo video comporta, la puntualizzazione dell'approccio collettivo che, nella coscienza del sogno, non implica obbligatoriamente di farne standard di costume, moda, business commerciale.
In  questa direzione va rivista anche la familiarità dell'utenza coi modelli massmediali. Il prof. Costa, nel suo intervento, ricordava come "abbiamo sempre in mente il modello letterario". Per le nuove generazioni l'enunciato vale certo nei confini   dell'educazione scolastica, ma nell'autoesplorazione dei messaggi massmediali i giovani hanno forse più in mente il modello  visivo, dell'immagine, piuttosto che quello letterario, della pagina scritta. Un modello più forte, più suadente, forse meno scandagliato, meno approfondito ma pregnante, più confidenziale nella sua immediatezza, nella sua intensità di frequentazione.
Dovremo allora prepararci a distinguere, a cavillare, a non fermarsi alla comunanza del termine lettura (ormai acquisito anche in ambito filmico), ma a soppesare con dovizia valenze e affinità di testo scritto e testo (audio)visuale, auspicando con queste due espressioni una identificazione esaustiva delle due entità in oggetto.
Così  in  questo scivolare sulla china del  predominio  dell'immagine permettetemi un paradosso estremo sull'elitario distacco della forma visiva dalle  nostre capacità di possesso totale. Interviene qui la prima citazione filmica. In
Fahrenheit 451 (Francois Truffaut, 1966) un regime dispotico condanna i libri al rogo, ma all'estinzione delle biblioteche fa eco la nascita degli uomini-libro che memorizzano i testi salvaguardando il tramandarsi della cultura.
All'entità-biblioteca, luogo mitico della cultura degli ultimi secoli, sta corrispondendo, in questi anni, l'entità videoteca: ogni cinefilo, critico, o semplice appassionato ama crearsene una propria. Ma vi siete mai interrogati sui rimedi possibili, in  questo  ambito, nel caso di un'azione sconsiderata paragonabile a quella di
Fahrenheit 451? Non potremmo mai impararci un film a memoria, perché esso non è solo una combinazione di caratteri, di parole: è qualcosa di più complesso, che ci supera, che ci mette in condizione di inferiorità non solo in  campo  creativo (la complessità produttiva della realizzazione di una pellicola rispetto alla scrittura di un  romanzo) ma pure in quello di acquisizione, di stabile e sicuro possesso...
  Una  premessa,  questa  ora  esposta,  più  d'atmosfera  che  di  vera necessità per entrare nel tema del mio intervento su
Lo schermo mutante. Il senso di questo titolo scaturirà dalle immagini, dai filmati che fanno da sussidio alla trattazione, ma è bene subito analizzare il termine  mutante nel suo significato linguistico: nel participio presente  del  verbo mutare (che muta) si può intravedere, oltre al senso più ovvio di chi cambia se stesso, anche uno più ampio di essere che muta ciò (o chi) lo circonda. Con mutante comprendiamo quindi  una doppia  azione, una passiva ed una attiva. In effetti l'attività e la passività dello schermo come oggetto-essere, sono concretamente mutanti davanti ai nostri occhi: la mutazione di mentalità che il cinema e soprattutto la televisione riescono a produrre (fase  attiva) è di continuo al centro del disquisire sociale, mentre rientra nel campo ristretto di semiologi e cinefili la mutazione del tipo di percezione (ancora fase attiva) conseguente alla diversa dimensione dello schermo che ci sta di fronte. Già al cinema sono pochi quelli che percepiscono la gamma di superfici illuminate che le varie pellicole e i corrispondenti   mascherini ci offrono2. Nel passaggio poi allo standard televisivo, nella media dei suoi 20-25 pollici, la mutazione (fase passiva) è evidente e la fruizione si stravolge del tutto (di nuovo fase attiva): il solito discorso del passaggio da una immagine luminosa di grande formato che ci sovrasta, ci avvolge (nel buio della sala, sacco amniotico di gestazione immaginifica delle  nostre personalità) ad uno schermo di piccolo formato che possiamo dominare (la psicosi da telecomando), ma che, nonostante la possibile disgregazione del coinvolgimento emozionale (le molteplici distrazioni dell'ambiente domestico), ha una straordinaria forza ipnotica che scaturisce dalla stabilità della sua presenza nel vivere quotidiano, dalla premeditata ripetitività dei palinsesti3.
 La nuova citazione è allora, banalmente, quella di Guerre stellari (George  Lucas, 1977): una cosa è vedere, nello spazio  dello schermo cinematografico, le grandi astronavi che sfrecciano da  sinistra  a destra, un conto vedere dei minuscoli oggettini che si spostano veloci all'interno di quel delimitato contenitore che è il video!
Ma la mutazione può essere anche meno filologica, più banale e drastica. Prendete Il  buono il brutto il cattivo di Sergio  Leone (1966): avete osservato il duello finale a tre riproposto sullo schermo tv? Nell'originale, cinemascope, Clint Eastwood è al centro, gli antagonisti (Eli Wallace e Lee Van Cleef) sono posti ai lati dello schermo. Nella trasmissione televisiva compare invece solo  Eastwood, unico duellante al centro della scena: nonostante le fasce nere, che delimitano in alto e in basso il quadro, la dimensione dello scope è troppo ampia, i lati estremi vengono inesorabilmente tagliati. E nella mutazione dello schermo
4, nell'immagine defraudata della propria  personalità originaria, rientra anche la perversione dello spot ad orario fisso5 o dei probi tagli censori. È il caso di Vestito per uccidere (Brian De Palma, 1980), mutilato della indispensabile sequenza iniziale (la scena della doccia che rimandava a Psyco di Hitchcock): certo la versione di De Palma  giocava apertamente la carta dell'erotismo, ma l'omissione altera tutto il meccanismo onirico di incubi e sensualità che  sorregge il racconto. Quello trasmesso risulta, alla resa dei conti, un altro film!

E, ancora,  la mutazione dello schermo, della sua essenza  di  oggetto che coniuga immagini, si dilata e si esalta proprio nel rapporto d'uso narrativo e figurativo che il testo visuale costruisce nel  confronto cinema-televisione, nel rapportare il piccolo schermo (con le  sue valenze di demiurgo della videorealtà) con il grande schermo (con il fascino del suo riaffermato respiro onirico). Vedremo allora come nel cinema la televisione rappresenti, venga rappresentata quale oggetto-luogo massmediale di riferimento, di confronto, di osmosi, di generale verifica. Osserveremo come il cinema usi la televisione e come questa crei nuovi percorsi fantastici che cementano e rigenerano il dialogo tra i due media.
La prima trance di citazioni è intesa quindi ad inquadrare quel processo di revisione, di controllo, di supplenza della realtà che sta alla base della concezione diffusa di categorie alternative tra cinema, oggetto-luogo della fiction, e televisione, oggetto-luogo della realtà
6. In Scarface (Brian De Palma 1983) il folle gangster, interpretato da Al Pacino, controlla sui monitor dell'impianto a circuito chiuso l'evolversi del proprio potere e della propria rovina. In Tornando a casa (Hal Ashby, 1978) è la società americana stessa che vive  attraverso i notiziari e gli special televisivi la cruda esperienza del Vietnam7

Su questo standard di riproposta, più o meno corretta, di una realtà non a portata di mano, possono innestarsi i colpi di regia, le intuizioni d'autore, in cui la televisione non rappresenta solo quello che la realtà è, ma anche ciò che nella realtà non possiamo ritrovare; in cui lo schermo televisivo con le sue immagini punteggiate, striate, con la sua definizione imprecisa ci concede distorte immagini di ciò che al di là della nostra percezione reale, al di fuori di noi (o forse inconsciamente dentro di noi).
Le immagini a cui far riferimento sono quelle di
Alien, un film di fantascienza del 1979 firmato Ridley Scott: la diversità tra ciò  che vedono  gli  astronauti all'esterno e le immagini riportate sugli schermi dell'astronave  (attraverso le telecamere) il segno della mediazione percettiva che pone l'equipaggio del Nostromo di fronte  ad un'inaspettata (fanta)realtà a rischio. Quell'immagine sporca che filtra la realtà esterna e la riporta all'interno, in un luogo sicuro, quasi paragonabile al discorso di mediazione televisiva operata dai network americani sul Vietnam. Anche qui la realtà esterna sembra comprensibile, padroneggiata dalla comunità degli astronauti mentre il mezzo di comunicazione diventa un tutt'uno con la capacità conoscitiva dell'utente: quando il pericolo si fa strada, quando la situazione sfugge di mano, è lo stesso strumento televisivo che va in crisi (la trasmissione che si interrompe, il caos visivo e sonoro dei monitor), subentra una simbiosi tra il fatto tecnico e il fattore psicologico creato dall'ambiente...
La simbiosi si ripresenta in un'altra situazione fantascientifica, in un altro discorso autoriale (la regia è di Bertrand Tavernier), con
La morte in diretta (1980): qui la simbiosi è tra telecamera e occhio umano, quello di Roddy-Harvey Keitel, che una delicata operazione di trapianto ha opportunamente trasformato. E la situazione è ben più concreta, ben più reale: un altro passo nella comprensione di come la visione, attraverso la telecamera, possa avvinghiarsi alla vita, completarsi con essa. Sulla storia di una giovane donna (Romy Schneider) condannata da un tumore, che cede ad una rete televisiva gli ultimi istanti della propria vita, Tavernier costruisce il dramma di una privacy violata (l'uomo con la telecamera negli occhi l'accompagna e la filma a sua insaputa), esibisce la cinica e splendida forza evocativa di un reportage sublimato dalla tecnica (quello sguardo sempre acceso sui fatti che lo circondano) ed evolve psicologie e rapporti interpersonali sul sottile filo che lega visione esteriore e visione interiore, responsabilità di sguardi oltre che di azioni  (il meccanismo di introspezione psicologica porterà l'individuo-telecamera alla disperazione, all'autoaccecamento).
Con
Britannia  Hospital (Lindsay Anderson, 1982) si vuole cogliere invece un emblematico momento sul confronto televisione-realtà, una breve sequenza che si innesta con ironia nella globalità surreale  del racconto: c'è un cameramen (Malcom McDowell) che si dà da fare per riprendere di nascosto i segreti di una strana clinica inglese e  due tecnici gli fanno di supporto da un'unità mobile: in realtà i due  non seguono affatto la ricezione delle trasmissione e, tra uno spinello e l'altro, assistono beati ad un generico documentario (sull'allevamento dei polli), si costruiscono un proprio mondo di estraniazione e divertimento (memorabile la battuta, in puro humour britannico, "perché si chiama incubatrice? Perché dà gli incubi, nel senso che appena nati i pulcini si domandano: non sarò mica nato pollo?"), mentre fuori del camioncino gli eventi sociali precipitano.
Televisione come droga, esclusione dalla realtà in questo caso, ma la lettura del mezzo può essere facilmente ribaltata. In 
Moses  Wine Detective (Jeremy  Paul Kagan 1978) l'investigatore privato  Richard Dreyfuss, ex sessantottino, osserva, in uno studio televisivo, alcuni filmati d'archivio sui moti studenteschi di Berkley. Rivede l'unità sociale di quegli anni, ritrova il coinvolgimento degli antichi ideali, lascia infine che la commozione gli inumidisca gli occhi8: televisione come strumento per riafferrare il passato, per vivere  la nostalgia di un ricordo, ma anche medium psicanalitico per affrontare, analizzare la propria personalità (quella lacrima!).
Questa sequenza fa allora da ponte con l'ulteriore gruppo di citazioni, o meglio con l'interpretazione dell'oggetto-televisione che ne costituisce l'analogia: il pretesto per revisionare, controllare se stessi, per una più completa lettura della nostra e dell'altrui individualità, cioè del reale che ci circonda. Il primo titolo è un esempio famoso, recente,
Sesso, bugie e videotape (1989), opera prima di Steven Soderbergh: una giovane donna frigida  (Ann), un  marito fedifrago e superficiale, un amico di famiglia (Graham) con problemi di impotenza. In una società solo apparentemente disinibita la videocamera fa da tramite ai difficili rapporti interpersonali, diventa  strumento taumaturgico per superare complessi e solitudini. Questo considerare la telecamera come un occhio confidenziale, indagatore e disponibile, cui aprirsi, verso cui liberare la propria individualità repressa, è un perfetto esempio dell'uso dello schermo in funzione di filtro massmediale per una comprensione di noi stessi e degli  altri. Questa idea originale, con cui Soderbergh sorregge qui tutta la trama visuale, era già stata abbozzata da Lawrence Kasdan ne Il grande freddo (1983): Nick-William Hurt trova una videocamera e subito se ne impossessa per un'autointervista, per interrogare l'enigmatica Chloe (Meg Tilly) mentre esegue i propri esercizi ginnici, per coinvolgere gli amici in questo confrontarsi con le immagini-video. A The Big Chill va riconosciuto il merito di essere stata una delle prime pellicole americane che, in un contesto più ampio, hanno tentato di dimostrare come le persone non riescano più a comunicare tra loro, come abbiano paura di "raccontarsi" l'un l'altro, come la televisione sia non solo la causa di tanti silenzi interfamiliari, ma anche un possibile escamotage per mediare i reconditi sbocchi di comunicazione.

 

    E arriviamo al primo dei tre film guida, BLACK COMEDY (1987) del giovane Atom Egoyan film successivo in archivio, canadese di origine armena.

TRAMA: Il diciottenne Van, che vive con il padre e la sua amante, è molto legato alla nonna Armen, relegata dal padre in una degradato ospizio. Con uno stratagemma, sfruttando le coincidenze, riesce dapprima a farla credere morta, poi a ricoverarla in un'accogliente casa per anziani. 

Su un canovaccio già di per sé fuori dal comune, s'innestano alcuni elementi di grande originalità e interesse, evidenziati da alcune sequenze-chiave.
La
PRIMA SEQUENZA, costituita da una parte dei titoli di testa, mostra il protagonista in soggettiva attraverso lo schermo televisivo della stanza in cui la nonna ricoverata. Il suo spegnere la tv corrisponde il buio totale dello schermo... In Family Viewing (il titolo originale è molto più emblematico) la televisione, la videoregistrazione, la visione e revisione della realtà e della sua rappresentazione su nastro magnetico sono l'essenza stessa del vivere. 
Così nella
SECONDA SEQUENZA, mentre si scopre  che Van ha una relazione con l'amante del padre, all'improvviso le immagini appaiono accelerate e all'indietro: la scena viene rivista proprio in modalità play-rewind di un videoregistratore, a sintetizzare la compenetrazione tra realtà e videoreltà e ad introdurre anche lo strano vizio del padre di Van (TERZA SEQUENZA), ossessionato dal videofilmare ogni cosa, anche le proprie attività sessuali. Tale mania è ancora più abnorme perché l'atto della registrazione è puramente simbolico ed effimero; "lui cancella" commenta amaramente Van: le immagini su nastro servono solo a creare il rapporto esistenziale tra realtà e videorealtà; poi tutto può venire distrutto, anzi deve essere distrutto, perché le nuove immagini di videorealtà si sovrappongano alle precedenti in un continuo rigenerarsi, perché i ricordi e il passato non video-sopravvivano (ma in alcune vecchie cassette sottratte al padre Van riesce a ritrovare l'immagine della madre, che poi rincontrerà nel finale del film). Nel concetto di integrazione, anzi di predominanza della videorealtà sul reale rientra la QUARTA SEQUENZA: Van ha fatto credere morta la nonna scambiandole il posto all'ospizio con la defunta signora del letto accanto. Alla nipote di quest'ultima, assente al momento del decesso, il giovane offre, a consolazione, le immagini del funerale come sublimazione dell'evento stesso, da poter possedere per sempre. Infine la QUINTA SEQUENZA in cui il padre, che cerca di scoprire se e dove Van nasconda la nonna, sale correndo le scale di un'ala dell'albergo dove il figlio lavora. Nello spasmo della corsa le visioni dei suoi ricordi si propongono come immagini video (la videorealtà come essenza della memoria). L'ultima immagine dall'esterno della camera vuota in cui giunge è di nuovo un'immagine-video. Non solo è la visione, per noi spettatori, del suo fallimento: ne è la catartica verifica-video, per il personaggio e per il suo subconscio.

 

Con le immagini di Orwell 1984 l'ossessione televisiva non è più un fatto privato ma un fenomeno globale, in cui il controllo delle azioni, il plagio delle menti è la filosofia vincente di una società massificata, ove la videodipendenza assume un significato altro da sé, totalizzante ed opprimente per imposizione politica. Se George Orwell, nel libro ispiratore (1948), ipotizzava tale situazione come monito fantascientifico di un domani devasto e devastante, Sam Peckinpah (il regista di sangue indiano famoso per la rivisitazione sanguigna e demitizzata del western) esaspera in OSTERMAN WEEKEND (1983) il tema della violenza nella società contemporanea, in un allucinante parallelo con il cinismo e l'ambiguità del videopotere.

TRAMA: Nella casa di John Tanner, un affermato giornalista televisivo, si ritrovano tre suoi vecchi amici: Joseph Cardone, finanziere, Richard Tremayane (industriale della plastica) ed il produttore tv Bernard Osterman. La rimpatriata è solo un pretesto ideato dalla CIA e dal suo agente Lawrence Fassett che ha individuato nei tre ospiti delle spie di Omega, un'organizzazione legata alla Russia. Tanner si reso disponibile pur di avere come ospite della sua trasmissione Maxwell Danforth, il potente capo della CIA. In realtà tutta l'operazione non è che un contorto meccanismo di vendetta da parte di Fassett che ha avuto la moglie uccisa da agenti segreti sovietici. Il weekend diventa così un epicentro di tensione, la casa lo scenario di una violenza inaudita (dei tre solo Osterman rimane in vita) e Tanner dovrà preoccuparsi non solo di smascherare  via etere il cinico potere di Danforth, ma pure di recuperare sua moglie e suo figlio, rapiti dal folle Fassett.

Al contorto meccanismo narrativo si accompagna la lucida violenza delle immagini. Nella PRIMA SEQUENZA assistiamo all'efferato assassinio della signora Fassett: le immagini sono filtrate dal segnale televisivo, poiché sono state proprio le telecamere di controllo a rivelare la dinamica dell'omicidio. Il mezzo televisivo fa il suo ingresso prepotente e drammatico. È il preambolo del peso che verrà ad assumere nella vicenda: in casa Tanner un sofisticato impianto a circuito chiuso è direttamente collegato con gli apparecchi televisivi dell'edificio. Così ( SECONDA SEQUENZA) quando gli amici stanno rivedendo i filmati dei loro incontri di anni prima, all'improvviso il marchio Omega si inserisce, imprevisto e minaccioso. Di contro, capita che mentre sul video c'è Fassett in persona che comunica con Tanner, sopraggiungano gli altri tre: l'agente della CIA non può che improvvisare una performance come annunciatore delle previsioni atmosferiche... È uno spaccato di ironia all'interno di un'atmosfera di tensione in crescendo, ove il controllo video diventa l'emblema di una realtà, privata e non, osservata e pilotata da agenti esterni, subdolamente innestati nel vivere quotidiano. Di nuovo, attraverso i monitor, prima il burattinaio-Fassett padroneggia l'escalation di violenza (TERZA SEQUENZA), poi Osterman e Tanner provano ad avvertire gli amici del pericolo, assistono impotenti alla loro morte ( QUARTA SEQUENZA). In un finale con un ulteriore messaggio massmediale, Peckinpah mostra la preparazione e la trasmissione dell'atteso faccia a faccia tra Tanner e il capo della CIA (QUINTA SEQUENZA). Nel momento della grande comunicazione di massa, dell'appuntamento televisivo fondamentale (la distruzione del personaggio-Danforth) il mezzo televisivo, mentre ribadisce il suo potere, disvela l'ambiguita del suo essere: la trasmissione, proposta come  evento in diretta, in realtà non lo è affatto. Ed è proprio questo il trucco vincente che permette a Tanner di trovarsi "in due posti nello stesso istante" e poter liberare così moglie e figlio. In Osterman Weekend la televisione mostra la sua doppia faccia, il suo peso specifico nella concretezza dell'informazione e nei rischi legati alla sua duttilità (nelle mani di chi sa manovrarla), diventa metafora di potere, cinismo, violenza.

Alle estreme conseguenze dell'iperrealismo sociale di Peckinpah possono far seguito solo le escandescenze narrative e  visive della fantasy. Con Poltergeist (Tob Hopper, 1982) entriamo nel filone horror, in uno dei tanti prodotti di consumo dell'industria hollywoodiana, sotto cui si celano inaspettate finezze massmediali. Siamo in quella fascia di film americani in un periodo che potremmo chiamare estasi  della visione: protagonisti o comprimari di tali pellicole di fantasy sono spesso colti in sguardo attonito verso gli eventi affascinanti o terrificanti che li circondano.
E' il caso di
Poltergeist
quiz95 ove tutta la famiglia americana è messa a confronto con mostri e abnormi alterazioni del reale; in particolare la piccola Carol Anne ha uno  strano rapporto con la televisione: solo lei percepisce una sotterranea comunicazione con "loro", gli indefiniti abitanti dello schermo. Già l'incipit del film è ovviamente un'immagine televisiva: l'inno americano e la bandiera a stelle e strisce che sventola vittoriosa acquistano un ulteriore significato, così videotrasmessi. E' l'identificazione della realtà americana con i mezzi di comunicazione di massa, un'identificazione totale e violenta (pensiamo a Quinto potere di Sidney Lumet o, più recentemente, a Talk Radio di Oliver Stone). Qui la bambina ha con la tv un rapporto estatico, di simbiosi. Non è solo il solito rapporto preferenziale  infanzia-tv. Se nella prima sequenza Carol Anna parla familiarmente con la tv, nella seconda si manifestano i segni di un'ostilità recondita che si esprime in fenomeni minacciosi. Di lì a poco lo schermo la  chiamerà dentro di sé e sarà l'inizio di una serie di avvenimenti fantastici  e mostruosi. La televisione come interfaccia con  l'impossibile, con l'irreale...

 

E così arriviamo all'estremo, assurdo, sconvolgente VIDEODROME (1983), terzo ed ultimo film cardine del nostro discorso, firmato da David Cronenberg, regista di Inseparabili e prima ancora di Scanners e La zona morta (forse il suo prodotto più limpido): un autore che con l'orrido, con lo strano e l'impressionante ha un rapporto profondo e artisticamente proficuo, ma che qui lo esalta in un parossismo angosciante, che è il premeditato sbocco di questa relazione.

TRAMA: Sembra  che da una qualche stazione televisiva arrivi uno strano segnale, Videodrome, un programma di incredibile sadismo e violenza, ma di altissimo audience. Max Renn, direttore di un'emittente privata, che cerca di entrarne in possesso, si troverà coinvolto in una delirante spirale di delitti e allucinazioni, di un mostruoso cancro videotrasmesso che provoca ripugnanti mutazioni nei corpi degli individui, destinati, in nome della nuova carne, alla follia e alla distruzione.

PRIMA SEQUENZA: E' il primo contatto di Max Renn con Videodrome: è subito chiaro il potenziale di violenza che lo accompagna, ma è quando la videocassetta viene inserita nel videoregistratore che le deformazioni del reale entrano in comunicazione con la dimensione percettiva di Max (SECONDA SEQUENZA): le rosse labbra emergono dal video, lo schermo realizza la sua mutazione estrema... Siamo a uno spettacolo per stomaci forti. Non è facilmente dimenticabile quella fessura, quella ferita che sia apre nel ventre di Max, che divora la sua pistola (TERZA SEQUENZA). Allucinazione? Ma allora dov'è finita la pistola?! Il corpo di Max è diventato un veicolo di forze mostruose e il loro messaggio di violenza è concretizzato in quella videocassetta animata di vita propria, destinata ad entrare in lui attraverso una nuova lacerazione fisica (QUARTA SEQUENZA), attraverso la visualizzazione di un delirante incubo massmediale: gli oggetti televisivi che entrano nel corpo umano, l'individuo che "si apre" per essere programmato e videoguidato. E così, nella QUINTA SEQUENZA, è il televisore stesso che arma la propria mano, che si trasforma tridimensionalmente per uccidere Max; ma nello stesso momento in cui egli viene colpito, è il suo stesso corpo, bucato dai proiettili, che si materializza nello schermo televisivo... Morte e resurrezione dello strumento-uomo. I bizzarri riferimenti biblici trovano enunciazione formale ("la videoparola che si  fatta carne"), mentre Max si dirige verso la realizzazione estrema dell'assunto: mondo reale come emanazione ineluttabile della videorealtà. Nella SESTA SEQUENZA, che è la sequenza finale, il suicidio a cui arriva Max non è che la rappresentazione, l'immagine speculare dello stessa scena che è appena apparsa sulla televisione-feticcio che gli sta di fronte. E' la realtà che fa seguito all'immagine sullo schermo, non viceversa.  È la videorealtà che precede il reale.

Si può ben dire che, come dopo il colpo di pistola che chiude Videodrome, davvero l'immagine non possa che oscurarsi, così anche questa relazione non può che esaurirsi su tali allucinate immagini. Certo anche la vostra percezione dell'immaginario oggi ha subito una lieve mutazione, abbiamo scoperto una volta di più come il fantasticare dei concetti e la fascinazione delle immagini modellino un immaginario collettivo in  continuo divenire. Se nel film di Cronenberg (che continua a scorrere sul video) c'è ancora spazio per i titoli  di coda, a chiusura di questo incontro spero resti lo spazio, la provocazione per ulteriori percorsi di approfondimento9, di mutazione culturale, fuori e dentro lo schermo.

 

NOTE


1
- E. Leoni, "Apocalisse a 24 pollici" - Rivista del Cinematografo, Giugno 1980.
2
- Le configurazioni del fotogramma cinematografico, e quindi dei MASCHERINI che i proiettori devono montare (sempre che l'operatore li abbia in dotazione e si ricordi di usarli), sono essenzialmente tre, caratterizzate dal rapporto dimensione verticale/dimensione orizzontale: normale (rapporto 1.37, schermo di luce  in proiezione quasi quadrato, ormai in disuso), panoramico (rapp. 1.60, 1.75, 1.85, il più diffuso), scope (rapp. 2.035, il formato delle grandi produzioni, che in sala occupa, in orizzontale, tutta la superficie dello schermo).
3
- Qui il repertorio bibliografico ampio e già citato in altri interventi. Mi permetto allora di richiamare al riguardo un significativo spot apparso nella stagione 89/90 sugli schermi cinematografici:
scorrono le scene di
Nuovo Cinema Paradiso (la sequenza quella della proiezione in piazza). Ad un tratto il quadro comincia a rimpicciolirsi. Nel sonoro entrano rumori impropri di una qualche situazione domestica (una moglie-madre che chiama, il telefono che squilla), per qualche istante subentra un'inserzione pubblicitaria. Poi, quando l'immagine ormai ridotta ad un francobollo, compare la scritta esplicativa "i film ringraziano chi viene al cinema".
4
-
Dovrebbe essere ormai chiaro come attività e passività tendano a confondersi se continuiamo a porre l'attenzione non solo sull'effetto sociologico ma sulle alterazioni di senso che l'immagine stessa subisce (alterazioni che ovviamente precedono e che poi deformeranno la comunicazione e la fruizione del testo visuale).
5
- Non prendiamo per buona la frase fatta "spot selvaggio". L'immissione degli spot (stiamo parlando, ovvio, di un contesto filmico) diventa nociva proprio perché legata agli orari fissi dei contratti pubblicitari. Una programmazione selvaggia degli spot avrebbe forse talvolta una sua logica metalinguistica (Blob docet).
6
-
Il discorso può essere accettato nell'ottica del contatto che il fruitore comune ha con il documentario, un settore che, pur annoverando un grande tradizione cinematografica (citiamo soltanto la scuola di Grierson o, più recentemente, i prodotti dell'Istituto Luce), ormai, a livello popolare, di esclusiva pertinenza televisiva.
7
- Nell'impatto-Vietnam sul vivere civile della società americana merita particolare rilievo proprio la mediazione televisiva. In quegli anni le notizie dal fronte furono cos massicce e cos coordinate  che per  ogni cittadino il Vietnam sembra un'esperienza davvero vissuta: con la sua dose di conflitti politici, interni ed esterni, di tragedia e di orrore ("l'orrore, l'orrore": Marlon Brando in Apocalypse Now). Giusto una dose ben calcolata però. La mediazione televisiva fece, al solito, da filtro agli aspetti troppo inquietanti della sporca guerra. Nella convinzione generale di averla vissuta, tutti, fino in fondo, ecco arrivare gli shock per la brutalità di Platoon (Oliver Stone, 1986), per lo scempio di corpi e di ideali di Nato il 4 luglio (di nuovo Stone nel 1989). Ancora una volta tocca alla fiction far luce sulla videorealtà.
8
- sarà un caso che il segnale principe di commozione, di gioia o  di dolore dell'individuo, la lacrima, scaturisca dall'occhio, il senso della vista, lo strumento umano della visione?
9
-  Tra i tanti titoli omessi vale la pena di ricordare almeno Der Rekord di Daniel Helfer (RFT/Svizzera 1985). Potrebbe essere un  altro film-guida sull'argomento. In esso il protagonista, Rico, vuole stabilire un record di spettatore televisivo, di ore di permanenza (240!) in videovisione davanti alla tv. Più le ore si accumulano più ciò che  la televisione trasmette si confonde con la realtà stessa, intervengono scompensi psicofisici: sui monitor dell'ospedale che controllano la salute di Rico compaiono, a sprazzi, immagini di programmi televisivi...