LEGGERE IL PREMIO
Esercizio critico, tra riconoscimenti
ufficiali e memorie soggettive, della

Biennale Cinema 1982

    Venezia, Mostra del cinema del cinquantenario, grandi celebrazioni (ma sempre con una certa moderazione), grande giuria (Marcel Carné presidente, Luis Garcia Berlanga, Mario Monicelli, Gillo Pontecorvo, Satyajit Ray, Andrej Tarkowskiy e Valerio Zurlini); Lizzani finisce dopo quattro anni il suo mandato e i meriti gli vengono quasi all'unanimità riconosciuti (l'eccessivo accumulo di pellicole - circa 150 in 10 giorni e la "trascuratezza" dell'Officina, sono i nei più evidenti): la Biennale cinema ha riacquistato buona parte dei suo prestigio, nomi altisonanti l'hanno onorata della loro presenza, la stampa le ha dedicato pagine e pagine (La Repubblica e Il Tempo in prima fila), la televisione l'ha vezzeggiata con gli appuntamenti sornioni di Beniamino Placido.
Poi, quando il magico schermo si spegne e il leone alato termina il suo balzo tra il pulviscolo colorato (a proposito, dov'è finito il simpatico spezzone-emblema del primo anno?), resta solo l'annuale archiviazione storica, il pullulare dei commenti e, sempre lussureggianti di prestigio, i fatidici premi. Leoni e Fenici, premi speciali e menzioni, istituti bancari novelli mecenati, teams di critici e intellettuali riuniti in rapidi conclavi, tutto per dilatare la gamma dei "giusti riconoscimenti". Il cinema cerca nelle premiazioni di rito appigli sicuri per il proprio mercato e per la propria storia, ma la dinamica più avvincente del suo evolversi resta, per la "parzialità" di ogni singolo spettatore, ciò che davvero riesce ad imprimersi con la forza delle immagini nell'emotività del proprio ricordo.
E cos'è la memoria soggettiva se non la "storia" (memoria collettiva) in formato mignon, un tributo d'acquisizione inconscia a ciò che (secondo il nostro parere) più appare meritevole? Ogni nostro ricordo radicato non è forse un premio personale a ciò che abbiamo ritenuto di pescare e imbalsamare nel mucchio delle prime impressioni? La nostra privacy di giudizio si consolida via via nel potere evocativo delle nostre rimembranze schermiche e quindi cercheremo ora di azzardare un'operazione di pedante "lettura premíca", sfacciato riordino globale della ridda dei riconoscimenti, cattedratici e collaterali, enunciati e impliciti, realmente attribuiti o non più che auspicati, spulciando nel mazzo dell'ufficialità ma pure nella presuntuosa panoramica dei nostro pensiero.

Segnalazioni clandestine...
Così il nostro premio-tortura va a Clodia Fragmenta, due ore di sproloquio su immagini fisse di Francesco Brocani, con tanto di puntigliosa descrizione verbale di una sceneggiatura mai tradotta su celluloide. Il premio-documentario è invece per Highway 40 West di Hartmut Bitonisky un "road film" (oltre 3 ore) da Atlantìc City a San Francisco, con una splendida saturazione del colore operata dal fotografo Axel Block. Il premio-presenza a Rainer Werner Fassbinder (3 film a sua firma, Querelle, Veronika Voss, Attenzione alla sacra puttana, la sua estrema interpretazione in Kamikaze 1989 e un reportage sulla sua figura di regista RWF: ultimi lavori osservati e documentati), il premio semplicità a Eva's Dreams di Nadia Werba, una sincera riflessione sulla riscoperta dell'affettività umana in una glaciale New York.
Tutto materiale, questo, dell'
Officina (la rassegna "poareta") ma pure la sezione Mezzogiorno/Mezzanotte merita alcune menzione speciali. A ET, l'extraterrestre di Steven Spielberg per "sopraffino esempio di fantapoesia al botteghino", a Robert Altman (Health) per "assiduità esemplare nel concepire la direzione registica come opera di evidente intelligenza"...
Ci fermiamo qui e veniamo alla "sezione regina",
Cinema 82 in cui subito vanno segnalati Woody Allen, perché "ironìzza su Shakespeare, Bergman e se stesso con una squisita Commedia sexy in una notte di mezza estate" e Paul Mazursky (Tempest) che "rivela un'inconscia predisposizione per trasformarsi nel nuovo musicalmaker hollywoodiano". Il film più brutto resta Il fratello maggiore di Francois Girod (incalzato da Il buon soldato di Franco Brusati, ma non dimentichiamo Oltre la porta "sfirmato" da Liliana Cavani nella "vetrina" del Cinema Italiano 82), l'occasione perduta più grossa è quella di Férenc Kosa che col suo Guernica instaura un lacerante dialogo sulla pace ("l'umanità partorirà la propria pace" è la frase più pregnante di speranza in tutto il Festival) ma poi si perde in un secondo tempo di pedante inconsistenza, quasi "a luce rossa"; il lavoro più leggero (ma simpatico) è Sono in crisi di Fernando Colomo, l'attore più standardizzato (ma con un suo fascino) risulta essere ancora una volta Harrison Ford: lo troviamo in Blade Runner di Ridley Scott...

E premiazioni in "pompa magna" (con tributo a W. W.)
E veniamo, con maggior correttezza espositiva, ai premi ufficiali.

LEONE D'ORO per il miglior film:
Lo stato delle cose di Wim Wenders

Il film di Wenders è un'opera ricapitolativa del lavoro del giovane regista tedesco; la sequenza iniziale sembra introdurci in un remake fantascientifico (da The most dangerous man alive di Alan Dwann), in realtà le immagini che vediamo sono soltanto il "si gira" del prodotto in questione (I sopravvissuti), inesorabilmente destinato all'incompiutezza. Manca infatti la pellicola, il produttore Gordon non dà più notizie di sé dopo che se ne è ritornato in America (la lavorazione avviene invece sulla costa del Portogallo in un'ambientazione - grande albergo con piscina - decrepita e "incombente"1) e Friedrich, il regista, cerca di tessere l'armonia della troupe, che invece tende all'isolamento ed alla demotivazione: Dennis, lo sceneggiatore, si richiude a guscio sul suo soggetto davanti alla macchina da scrivere, Martin, il fonico, cerca di captare i suoni della disgregazione collettiva o della sua chitarra elettrica, Bill, il direttore di produzione, prova a programmare sull'elaboratore elettronico una sceneggiatura ottimale, Julia, dieci anni, gira in super-8 la sua intrigante partitura visuale2.
Friedrich3 fa ciò che può: con "religioso rito" impresta all'attrice francese The searchers di Alan LeMay (il romanzo da cui John Ford trasse l'omonimo capolavoro4), poi osa un mini-comizio autoriale che esaspera i concetti wendersiani di un rapporto interagente tra realtà e finzione e dell'assoluta indipendenza dell'opera dalle clausole narrative: "le storie esistono solo nelle storie, invece la vita scorre nel corso del tempo...". Friedrich-Wenders è bloccato al suo nuovo progetto (n. 10, o meglio 9 e mezzo poiché, agli inizi della lavorazione di Lo stato delle cose, Hammett non era ancora stato ultimato5) come il Guido-Federico di Otto e mezzo, ma qui la crisi non è artistica, ma "capitalistìca".
Per trovare i fondi necessari il regista vola in America e, chiusa la prolissa parentesi portoghese, il film cambia ritmo: il bianco e nero del glorioso Henry Alekan perde i grigi interiorizzati della staticità europea e si carica dei chiaro-scuri di un'America tutta "larghi spazi e buon rock".
In un finale pieno di feeling Friedrich-Wenders delinea le estreme citazioni e spende la sua ultima notte registica percorrendo Los Angeles accanto al ritrovato Gordon che, irrimediabilmente condannato dai suoi loschi traffici di denaro, vive un'esistenza di recluso-fuggitivo su un mastodontico motorhome.
I due si scontrano sui rispettivi concetti di cinema6: "solo le zebre usano oggi il bianco e nero" si autorimprovera il produttore. "Quando entra la storia la vita se ne va" resta l'idea base di Friedrich e poiché l'altro gli argomenta che "un film senza storia è come fare una casa senza mura", ribatte sicuro "lo spazio tra i personaggi può sopportarne il peso"… Si trovano d'accordo sulla potenza della morte ("tutte le storie sono di morte... la morte è l'essenza di tutto") e quando al mattino scendono dalla vettura-rifugio in Sunset Boulevard7I appare all'improvviso chiaro che solo con la morte Wenders poteva ricomporre il suo mosaico, esistenziale e descrittivo, immobile e frenetico al contempo.
Gordon è abbattuto da un proiettile-giustiziere e Friedrich-Wenders si tuffa visceralmente nell'aura di morte per inebriarsi in un'affascinante sequenza di cinema-cinema contemporaneo. Con la sua fida cinepresa impugnata a mo' di revolver spazia circolarmente l'orizzonte finché i sicari non aggiustano la mira anche su di lui: l'immagine si impenna proprio come nel finale di Lightning over water-Nick's Movie...
Con tutti i suoi pregi questo splendido film tedesco deve il suo riconoscimento in gran parte all'accanito impegno del giurato Tarkowskij. Le voci di corridoio riportano che è stato lui ad opporsi con fermezza ed argomentazioni alla sfrontata campagna di Marcel Carné in favore di Fassbinder. Luis Berlanga, incerto, non si pronunciava, Monicelli e Pontecorvo cercavano di tirare l'acqua al mulino italiano (Gli occhi la bocca del rìgenerato Bellocchio), Satyajit Ray prendeva troppo a cuore la propria nazíonalità e "faceva l'indiano", ma Tarkowskij ha fatto il diavolo a quattro ed è riuscito ad indirizzare tutti verso Der Stand Der Dinge. Un premio davvero meritato.

Premio speciale della Giuria:
Imperative di Krzysztof Zanussi

Prima di Querelle e Gli occhi, la bocca era proprio questo il rivale più quotato di Wenders. Il riconoscimento consola il regista polacco per il Leone d'oro mancato (Imperative è il lavoro più fortemente interiorízzato; per una Mostra in vena celebrativa occorreva un'opera di forte modernità cinematografica come Lo stato delle cose), ma lascia ancor più la bocca amara a Carné ed ai tifosi di Fassbinder: questo premio speciale suonava implicitamente come già destinato al maestro di Monaco di Baviera. Il suo Querelle, barocca e degenerata discesa agli inferi (portuali) dell'essere umano è moralmente abbrutente e stilisticamente esasperato, ma quale occasione migliore di questa per una "dedica alla memoria" a uno dei più grandi registiautori contemporanei? In ogni caso la motivazione per Imperative è di una lapalissiana imparzialità: "un fibn che ha il merito di affrontare con grande forza emotiva un tema arduo e profondo quale la ricerca della libertà interiore dell'uomo".

Leone d'oro per la miglior opera prima

Un'assegnazione ex-aequo a Il sapore dell'acqua (anche premio UNICEF) dell'olandese Orlow Seunke (fin troppo appassionato recupero di un'adolescente, regredita per i maltrattamenti subiti, da parte dì un ex burocrate dell'assistenza sociale) e Sciopen (Italia!) dì Luciano Odorisio. Che dire? Buon soggetto, discreta sceneggiatura, mediocre regia che tocca il fondo all'inizio (con Michele Placido e Giuliana De Sio goffi perfino nel sessualeggiare) e risale un po' la china nell'ultima parte...Non era meglio Il pianeta azzurro (gli è stato assegnato comunque il Premio Banca Cattolica del Veneto per un nuovo autore)? Forse il film di Piavoli resta soffocato da un'eccessiva staticità ittorìca ma almeno rasserena con la sua fresca scintilla poetico-naturalistica (ha riscosso le simpatie, tra l'altro, di Ermanno Olmi).

Il Premio OCIC è scivolato (concedendo solo la menzione speciale al ben più meritevole Imperative) su Lefte funf Tage (Gli ultimi cinque giorni) di Percy AdIon elogiandolo poiché "con sobrietà e coerenza il film rende partecipi di un incontro umano fatto di amore e di rispetto. Nell'evocazione di un fatto autentico, la fede cristiana illumina e dona ad una giovane donna dignità e coraggio di fronte ad un regime totalitario". La tragica fine di Sophie Scholl, studentessa ventunenne, giustiziata nel 1943 dai nazisti per i fatti de "Ia rosa bianca" è certo opera di forte dignità e solidarietà cristiana, ma risulta claustrofobicamente ripetitiva, tesa più alla noia che agli stimoli di rìflessione dell'opera di Zanussi. Ad essa è andato in ogni caso il Premio Pasinetti, attribuito dagli iscritti al Sindacato Critici Italiani. Questi hanno insignito poi gli attori Susan Sarandon per Tempest (è la frizzante compagna extraconiugale del protagonista John Cassavetes) e Max Von Sydow che ne Il volo dell'ingegner Andrée sfodera ancora una volta la sua classe di interprete profondamente legato ai valori intimi dell'uomo quali il dovere, l'amore, la dignità, l'amor di patria, la morte.
Sempre in "zona attori" le due Fenici d'oro sono state attribuite a Robert Powell (impeccabíle e vibrante professor Augustin in Imperativ) e a Beatrice Romand, la petulante ragazza da marito del film di Eric Rohmer Il bel matrimonio, un'opera piacevolmente scorrevole, primo promettente capìtolo del suo nuovo ciclo tematico commedie e proverbi.
Anche il premio della giuria della Mostra per la migliore collaborazione artistico-prolessionale è servito a far risaltare i meriti di un'interpretazione, quella di Julij Rajzman nel sovietico Castnaja zizn'(Vita privata); un lavoro molto lineare, su di un dirigente statale il quale, andato in pensione, riscopre se stesso e la famiglia, un modo diverso di intendere le cose. Un po' lento ma approfondìto (tra l'altro, di sicuro, ben accetto nel suo ambiente politico per l'assoluta mancanza di fermentì sociali scomodi) Vita privata merìta certamente un augurio di pronta distribuzione per come sa dare ai personaggí un buon spessore comunicativo, riuscendo a condurre in porto un gradevole ritratto di rapporti umani.
Ultima citazione per Colpire al cuore di Gianni Amelio che ha ricevuto uno dei tre premi che l'AIC (Associazione Iniziative Culturali) ha istituito per la Mostra del cinema. Dobbiamo esternare subito la nostra parziale delusione per questo lavoro dell'autore de Il piccolo Archimede. Questa volta il soggetto (sul terrorísmo e sui rapporti, alla luce di questo, di un padre professore universitario, in qualche modo coinvolto, e dei suo figlio adolescente, in crisi tra affetti ed integrità morale) appare ambiguo e irrisolto; la regia più calligrafica che incisiva, la recitazione tra l'interiorizzato e l'impacciato. La resa sonora mina poi ciò che di buono ugualmente riuscìva ad emergere: su un mondo che già sembra procedere al rallentatore, con le cadenze di un altro secolo, grava un irreale silenzio di fondo (a quando un'accettabile presa diretta italiana?) ed una colonna musicale quasi inesistente che portano Colpire al cuore nel regno del falso realismo e dell'astrazione.

Lacrime nostrane (con consolazione emíliana)
Tante parole "cattive" in chiusura per il film di Amelio suonano come un personale, ennesimo lamento per il cinema italiano. La
rassegna in Sala De Sica non ha mostrato (per quello che abbiamo visto) nulla di eccezionale: Sordi ha tenuto tuttalpíù un tempo con Io so che tu sai che io so, la "pompatissima" (in raccomandazioni e battage promozionale) Cínzia Torrini mostra buona confidenza con la macchina da presa, ma distaccata partecipazione emotiva in Giocare d'azzardo, Marcello Alíprandí è riuscito a far ricordare il suo Morte in Vaticano solo per una parentesi osé in "prospettiva penitenziale", La Voce di Brunello Rondi (sulla giovinezza di Suor Teresa di Calcutta) frana nel semplicismo retorico, Sconcerto rock vorrebbe essere celebrativo, giavanilista, iconoclasta, ma appare semplicemente e drasticamente "sbracato"... Perfino il buon Maurizio Nichetti scade da divertente a ridicolo, da poetico a patetico con il suo nuovo Domani si balla.

La cosa migliore "fatta in casa" resta (Grog, stringi stringi, non ha molto costrutto) il ritrovato Bellocchio: ne Gli occhi, la bocca ha il coraggio di rivisitare se stesso con un po' di follia, amarezza ed ironia. Ci troviamo di fronte ad un'altra famiglia "sui generis" ("non ci sono famiglie normali" sentenzia ad un certo punto il protagonista), la famiglia Pallidissimi: il figlio Giovanni, di professione attore, torna all'ovile per rendere omaggio al corpo del fratello gemello Pippo che si è appena suicidato con una pistolettata alla tempia. L'occasione del rientro in un nucleo sociale di un greve borghesismo (con "gli occhi e la bocca" all'erta nell'ascoltare con distacco e nell'azzardare velenosi giudizi) è anche verifica di un'esistenza insoddisfacente sia come persona che come professionista. Giovanni Pallidissimi incarna sia il deperimento della carriera di Lou Castel ("sono passato di moda") sia le inquietudini autoriali ma soprattutto familiar-sentimentali di Marco Bellocchio: entrambi campioni di dissacrazione nel 1965 con I pugni in tasca cercano oggi di rileggere se stessi e pure il proprio vecchio film. Giovanni va a "rivederselo" in un piccolo cinema assieme a Vanda (Angela Molina), la stranita ex fidanzata del fratello. Rivediamo scorrere la sequenza in cui Lou Castel - Sandro "accompagnava" la madre nel precipizio, ma di lì a poco il Lou Castel di Gli occhi, la bocca si trucca da fantasma di Pippo e "appare", provvido e commosso a fianco del letto della madre, ancora sconvolta e incredula. Il nuovo Bellocchio non ha il ribellismo confuso de I pugni in tasca ma neppure la pretenziosità intellettuale di Salto nel vuoto. E' un cinema spoglio, uno psicodramma irreale in cui un mesto stagnare di frasi e di sguardi ("gli occhi e la bocca" che non riescono ad esprimersi) si ravviva all'improvviso in sprazzi stralunati se non pazzoidi ("gli occhi" che indagano, "la bocca" che lacera il silenzio), in languidi desideri di comprensione e affetto ("gli occhi" che leggono nel profondo, "la bocca" che sussurra, dolcemente). Con un'atmosfera che mentre si delinea sembra ancora incerta sulle proprie connotazioni, con una emotività o portata all'isterismo o ridotta all'osso ("prima che finisca il film mi piacerebbe che tu cambiassi espressione") il regista emiliano rivela, ancora intatta, la sua sfacciataggine nel contorcerci sulle proprie nevrosi. Non siamo certo al capolavoro, ma almeno brilla una vivida verve autoriale: la carica vitalistica che serpeggia ne Gli occhi, la bocca rimane uno dei pochi, buoni segni di speranza, qui al Lido veneziano, per il nostro panorama nazionale.

e.l. Espressione Giovani settembre/ottobre1982

1 Il grande albergo ha ricordato a qualcuno il disfacimento di Marienbad e va notato inoltre come il Portogallo, estremo lembo pre-atlantico, si inserisca in quel fascino che Wenders sente e trasmette nei luoghi di confine (qui d'Europa). Ancora, il film inizia con una sequenza sul mare, così come Alice nelle città e Falso movimento.

2 E' l'estrapolazione del film (di Julia) del film (di Friedrich) nel film (di Wenders)! E va poi aggiunto il fatto che Joan, l'attrice madre della bambina amica di Julia, "gioca" a sua volta con una Polaroid (vedi Alice e L'amico americano) e quindi il meccanismo della rappresentazione iterata della realtà-finzione implica un ulteriore gradino.

3 Ma attenzione, il regista è chiamato pure Fritz e quando arriverà ad Hollymood calpesterà sul marciapiede la stella di Fritz Lang!

4 E sul finire, nelle sequenze USA, si scorge una sala che lo tiene in programmazione.

5 filmografia di Wim Wenders

6 C'è di sicuro, nella vicenda del produttore-ostacolo, un minimo riferimento all'esperienza americana di Wenders, scontratosi per la realizzazione di Hammet con i problemi (finanziari e non) di Francis Ford CoppoIa.

7 E come in Viale del tramonto (Sunset Boulevard) Billy Wilder usava come attore Von Strolicim, qui Wenders fa recitare i registi Samuel Fuller (Lee, l'operatore, col suo immancabile sigaro), Roger Corman (l'avvocato che Friedrich incontra a Los Angeles) e Robert Kramer (l'operatore alla macchina) che è anche cosceneggiatore del film.