VENEZIA '92
Un OK per il Leone,
ma il progetto-cinema dov'è?

Rimasti orfani di Edgar Reitz e del fascino del suo cinema (dopo che anche la tredicesima puntata du Die Zweite Heimat ci aveva lasciati), possiamo confessare di aver ascoltato con distacco la comunicazione dei premiati in questa sessantesima Mostra del Cinema? Anche perché i titoli principali erano facilmente trapelati e il piccolo sgarro al buon gusto comune con il Leone d'argento assegnato al rumeno Hotel de lux ormai era stato digerito. Si sapeva che il Leone d'oro era andato una volta tanto ad un film unanimemente apprezzato (La storia di Qiu Ju di Zhang Yimou, non è all'altezza di Lanterne rosse, ma il regista cinese ha saputo rinnovare il suo stile in un'opera fresca e attuale, di sobria testimonianza civile), le Coppe Volpi avevano quasi azzeccato il bersaglio (Jack Lemmon era inequivocabilmente l'unico vincitore possibile, a Gong Li qualcuno avrebbe preferito Tilda Swinton, l'altera androgina di Orlando o Emanuelle Beart che in Un cuore in inverno dispensa tristi sorrisi e intense esecuzioni al violino) e c'erano sempre il Gran Premio della Giuria, ed altri Leoni d'argento per completare degnamente il quadro delle opere migliori. Invece il contentino nostrano si è consumato con il Gran Premio della Giuria al non riuscitissimo Morte di un matematico napoletano (chissà perchè, per l'Italia, ben due opere prime in concorso e un autore ormai affidabile come il padovano Mazzacurati relegato nella Vetrina del Cinema Italiano?) e, dopo il doveroso omaggio a Sautet (Leone d'argento per Un cuore in inverno), l'altro Leone d'argento è andato ad esaltare l'erotismo melodrammatico-volgare di Prosciutto prosciutto (dello spagnolo Bigas Luna) lasciando a bocca asciutta due contributi significativi come Caccia alle farfalle del georgiano Otar Ioseliani e l'applauditissimo Orlando dell'inglese Sally Potter. Un vero peccato anche perché se quello di Ioseliani è un cinema elegante, distaccato, lievemente ironico, ma pure un po' datato (malignamente si potrebbe dire che non ha solo la tematica della "terza età", ne ha pure il ritmo), Orlando è stato la vera rivelazione del festival, un affresco sospeso tra lo spazio e il tempo, sottile nel suo mescolare mascolinità e femminilità, raffinato nella sua ricerca di stile e di colori (si capisce che ci è piaciuto?).
E qui sta il punto dolente di questa sessantesima Mostra. E' vero che tra i film selezionati da Pontecorvo e dai suoi collaboratori non c'era quasi nessun obbrobrio impresentabile, ma in una vetrina del calibro di quella di Venezia crediamo non possano passare solo pellicole dignitose e opere di conferma di autori conoscuti o magari in credito di riconoscimenti (vedi il Zhang Yimou di Lanterne rosse). Perchè la Biennale cinema torni a primeggiare in Europa e nel mondo occorre che sappia individuare anche le cinematografie, gli autori emergenti. Invece i contributi di Asia e America latina restano nulli, il film africano Guelwaar è un risultato modesto rispetto alla carriera di Sembène; per il cinema americano, che, volenti o nolenti, è l'asse portante del mercato internazionale, erano presenti oltre al gioco "monster" di sceneggiatura e attori di Glengarry Glen Ross e al thriller- puzzle di Brian De Palma (Raising Cain), due opere ritrite come Me and Veronica di Don Scardino (che ci fa in concorso un mediocre tv-movie formato famiglia?) ed In the soup di Alexandre Rockwell (ma i selezionatori hanno dimenticato quanto Jarmush è passato sotto i ponti dalla rivelazione del cinema indipendente?).
Forse non sappiamo accontentarci, ma è certo che il prestigio di Venezia appare progressivamente in pericolo: i giornalisti arrivati al Lido ci sono sembrati decisamente meno numerosi degli anni precedenti e alle proiezioni di gala della sera non c'era ombra del pubblico di un tempo a stringere d'assedio registi e attori. La ricetta miracolosa non ce l'ha nessuno, ma certo tra i suoi ingredienti non ci sono nè il preferire Don Scardino a Clint Eastwood (per chi ancora non lo sa il suo Gli spietati è stato rifiutato da Pontecorvo), nè il black-out affettivo per il cinema della modernità (e Orlando ne è uno dei tanti segnali), nè tanto meno il gongolarsi tutto sorrisi e abbracci di Gabriella Carlucci che ha tenuto anche la serata finale ben lontana dallo stile vincente di Cannes.

e.l. La Difesa del Popolo 20 settembre 92

LEONE D'ORO:
La storia di Qiu Ju di Zhang Yimou