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SPAZIO CINEMA  a cura di Ezio Leoni

     La città plurale e il cinema del “melting-plot”. L’abbinamento è quasi automatico e, attenzione, non è un refuso linguistico. L’immaginario cinematografico da sempre ha giocato le sue carte su storie che mescolavano razze e culture (il western in primis), per arrivare infine, scopertamente, al “plot” delle multietnie, al meticciato autoriale e narrativo, legato al crescere di una civiltà ibrida, segnata dall’emigrazione di fine millennio (dai border-line messicani ai boat-people, da Frontiera a Lamerica), dalle contraddizioni di un’integrazione forzata, dalle tensioni di comunità “incivilmente” accumunate.
Se la riflessione sociologica a Hollywood contrappone la romanticheria di
Mississippi Masala (1970) ai laceranti pamphlet di Spike Lee (su tutti Fa’ la cosa giusta, 1989), lo sguardo del british cinema va da Picnic alla spiaggia (1993) a Mio figlio il fanatico e East is East (1997 e 1999). E se il contributo di Jalla! Jalla! vira sulla commedia (regista libanese, nazionalità svedese – 2001) è difficile non ricordare il disilluso legalismo di Maurizio Zaccaro in L’articolo 2 (1993) o, in terra di Francia, l’amore negato di Jeanne e Dragan in Lovers (Jean Marc Barr, 1999) o l’amaro monito di Zone Franche (Paul Vecchiali, 1996).
Sul fronte della violenza gli scontri etnici metropolitani esplodono, senza filtri iper-realistici, nella crudezza “europea” di
Beautiful People (1999), ma il made in USA iconografico dei gruppi etnici ha saputo assumere toni epici memorabili: i ribelli asserragliati nei banchi di scuola (Il seme della violenza, 1955), la rilettura di Romeo e Giulietta nella coreografia di musicale dei Jets bianchi e degli Squali portoricani (West Side Story, 1961), le bande armate disseminate a macchia d’olio nel cinema d’autore (da I ragazzi della 56a strada di Coppola – 1983 - a Gangs of New York di Scorsese, 2002), nel black cinema (Boyz’n the Hood, 1991), nella commedia giovanilistica (The Wanderers, 1979), nel viaggio in un simbolica notte di iper-violenza in The Warriors (Walter Hill, 1979).
Ma se andiamo a visitare la città plurale fatta di realtà stratificate e sommerse l’avventura si fa ancora più intrigante: l’incubo totalitario di
Orwell 1984 e Brazil, i paradossi di Carpenter (con la metropoli carceraria di 1997 – Fuga da New York e l’invasione aliena di Essi vivono), il brulicare della fanta-città futuribile in cui si immerge il detective Deckard (Blade Runner), la malavita sotterranea di M, il mostro di Dusseldorf, la manodopera schiavizzata di Metropolis. Il taglio figurativo di Metropolis e Blade Runner apre ulteriori riflessioni sulle architetture che la città plurale delinea nell’universo filmico e i percorsi praticabili per una rassegna si fanno ancor più variegati, molteplici, “plurali”…
Con solo tre serate a disposizione si è adottata allora una soluzione estrema, una specie di iper-riflessione che sintetizzasse il tutto, che lo contraddicesse e lo sublimasse al contempo. Ecco allora, in
Distretto 13 – Le brigate della morte, una cittadina americana uscita quasi da un dipinto di Rockwell, con il camioncino dei gelati e la bambine dalle trecce bionde. Ma anche con lo scandire minaccioso del tempo, le bande spettrali che circondano l’ultimo avamposto di civiltà, la notte che avvolge nell’irrealtà rumori e squarci di violenza…
Se il plurale “esterno” di Carpenter porta i singoli non-eroi a cementare le proprie diversità in una vera battaglia per la sopravvivenza del vivere civile, la
Dark City di Alex Proyas non si sa dove abbia la sua testa e la sua coda, quanto si configuri come incubo della mente e quanto come delirio di onnipotenza aliena. Sta di fatto che la ricerca dell’io di John Murdoch si scontra brutalmente con una popolazione umana derubata di qualsiasi pluralità personalizzante (in sentimenti, emozioni, ricordi), con una comunità di malvagi non-umani che vuole togliere ad ogni singolo la propria identità, con una città che si modifica, si comprime, si dilata, riconfigura strutture e palazzi, ambienti e spazi per rimodellarsi in una realtà di dimensioni architettoniche tanto iper-espanse quanto ipertrofiche.
Al cupo pragmatismo di Carpenter e Proyas abbiamo contrapposto allora la farsa iper-razziale di
La repubblica di San Gennaro. L’impianto teatrale del soggetto di Strummolo è il limite e la forza del lavoro di Massimo Costa. Bizzarro e moralistico, teso al grottesco e frenato da una genuina ingenuità il film ironizza sulle differenze, disperde (col soffio del “ventilatòr”) il calore delle tensioni nord-sud, risolve in commedia ciò che certa politica rischierebbe di trasformare in dramma.
Se la città plurale resta, nella realtà del vivere, uno “spazio sociale” irrisolto, nell’immaginario filmico diventa insomma spazio privilegiato di percorsi tematici e sollecitazioni visive, tutti di straordinaria pluralità.