Free Fire

Ben Wheatley

Boston, 1978. Dodici uomini e una donna s’incontrano di notte in una fabbrica dismessa. Da una parte una delegazione dell’IRA, dall’altra un gruppo di trafficanti con tante armi da vendere. La tensione per la chiusura dell’affare è da subito palpabile e, quando scoppia una scintilla, si scatena l’inferno, ma gli spari non sono sempre così mirati… Una spirale mortale ed esilarante dove gli stacchi di montaggio e le panoramiche a schiaffo iniettano dosi di adrenalina ad alta concentrazione.

 

 

 


Francia/Gran Bretagna 2016 – 1h 31′

Nella lunga tradizione del gangster movie molti sono stati gli esperimenti per confermare o reinventare il genere. Free Fire, diretto da Ben Wheatley, film di chiusura dell’ottima annata torinese del 2016, si pone esattamente nel centro di una dualità spesso a braccetto. In una notte piovosa, un gruppo di criminali è intento ad acquistare diverse casse di fucili M16 da un’altra cricca di gangster. Quando due individui, appartenenti a fazioni opposte, scoprono di essere stati vittima e carnefice di un evento svoltosi la sera addietro, la transazione d’affari precipiterà in un turbine di violenza senza tregua.
Il regista Ben Wheatley sfodera l’artiglieria pesante e non solo in senso figurato. Impossibile eludere la somiglianza con lo humor irriverente dello Sherlock Holmes ritchiano oppure le cascate sanguinose, il turpiloquio e la chiacchiera ipnotizzante di Tarantino. La scelleratezza, sebbene il riferimento alla zoppicante Brie Larson, verso i termine della pellicola, non possa che rimandare al lucido splatter di Rodriguez e alla sua monumentale Rose McGowen in GrindHouse – Planet Terror, è più contenuta, e giustificata palesemente da un “si salvi chi può”. Per non rischiare di incorrere in un comprensibile parallelismo, dobbiamo dimenticare la compostezza brillante di De Palma o il fascino di Penn. Free Fire è infatti una spirale mortale dove gli stacchi di montaggio e le panoramiche a schiaffo iniettano dosi di adrenalina ad alta concentrazione. I protagonisti si trovano in una vecchia fabbrica, un non-luogo addirittura rimpicciolito dai loro movimenti verminali. Sì. Chiunque striscia, si trascina, è dolorante, affaticato, e pronto a sferrare un altro colpo. Un videogame da cardiopalama in cui noi stessi speriamo che il nostro favorito non perda tutte le vite che gli restano.
Una scena da panico, senza ombra di dubbio. La pellicola di Wheatley si prende gioco da sola e invoglia lo spettatore a seguirlo in un carnaio, un mattatoio dove la polvere del terreno contribuisce, paradossalmente, ad evitarci l’apnea respiratoria. La salita, il paradigma dell’altezza=salvezza attuato dai due boss, si configura, secondo fonti immortali, come la sola maniera di scampare al soffocamento geografico. Ma pure una scrittura cadenzata da nuovi ingressi, progressi, un bacino di possibilità risolutive, distolgono l’attenzione da un effetto chiusura. Cecchini, vittime, tutti partecipiamo tanto all’eleganza folle del dandy Armie Hammer quanto alla tossicità irriverente di Sam Riley. Una molla in cui perfino la fase di compressione non lascia spazio alla tranquillità. Eppure, inaspettatamente, il monumentale cantautore John Denver fà il suo ingresso con i suoi scorci di montagna, i suoi laghi cristallini tanto amati, e ci riconduce ad una dimensione di leggerezza: un sognante galleggiamento capace di farci astrarre dalla pericolosità degli eventi e del loro reale significato. Free Fire gioca addirittura con i paradigmi del noir, vedi la femmina fatale, ma non li incanala in toto, forse per la manifesta intenzione di ibridarsi il più possibile e non cedere il passo a cornici prestabilite. Un’ammucchiata esilarante da rivedere.

Pasquale Pirisi – sentieriselvaggi.it

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