Roger Waters US+THEM

Sean Evans

Il nuovo film-concerto documenta l’ultimo tour di Roger Waters (2017-2018), attraverso America, Australia, Europa e Russia e conclusosi a Monterrey, in Messico. Il repertorio è quello classico dei Pink Floyd (The Dark Side of the Moon, The Wall, Animals, Wish You Were Here) con l’aggiunta di brani tratti dal nuovo album di Waters, Is This The Life We Really Want?


UK 2019 (135′)

   Tra maggio del 2017 e dicembre del 2018 il fondatore e autore dei Pink Floyd Roger Waters intraprende con una band completamente rinnovata un tour mondiale di 157 date tra Nord, Centro, Sud America, Europa e Australia/Nuova Zelanda. La strepitosa serie di sold out si trasforma, com’era prevedibile, in un film che non intende essere pura riproposizione di quel live magnificente e grandioso ma integrarlo con contenuti creati ad hoc. Waters lo firma con il collaboratore Sean Evans, già direttore creativo di “US + Them tour” e regista del precedente Roger Waters: The Wall e dei video di The Last Refugee e Wait for Her, entrambi compresi nell’ultimo album di Waters, Is This the Life We Really Want? (2017). Che poi è la domanda che dà la direzione allo show. Ovvero: è davvero questa, nel 2019, la vita (l’idea di mondo) che vogliamo?
La scaletta – che fa incontrare i classici dei Pink Floyd di The Dark Side of the Moon e Animals (da Breathe a Time, da Money a Wish You Were Here e The Wall a Pigs (Three Different Ones) e i brani dell’ultimo album – riaccende la tensione ribellistica che viene da lontano e che non si è mai spenta. Il tour si intitola come il pezzo scritto nel ’73, un’esortazione al recupero dell’empatia. La congiunzione di allora si trasforma in un segno grafico, ma il senso è lo stesso, gli allarmi di George Orwell e Aldous Huxley sempre validi: contrastare conformismo e consumismo, mettere un freno ad avidità, bestialità, alienazione.
A rafforzare la loro dichiarazione egualitaria e pacifista, Evans e Waters, oltre alle proiezioni e ad effetti come gli schermi mobili, lanciati da tutte le direzioni sulla platea, aggiungono allo spettacolo – e sulla superficie di 26 metri di larghezza che campeggia dietro il palco – le immagini, a tratti un po’ troppo curate, di conflitti associabili a contesti di guerra mediorientali, barriere artificiali tristemente note, viaggi di migranti per mare. Incorniciate dalla separazione e del ritrovarsi di una madre e di una figlia profughe; materiale, quest’ultimo, che in parte arriva dal video di The Last Refugee.
Mentre i testi delle canzoni curiosamente non sono stati sottotitolati né tradotti (almeno, non nella versione proiettata nel fuori concorso vista a Venezia 2019), cartelli, slogan da street art e citazioni colte si sprecano, con effetto molto meno dirompente, per esempio, dell’altrettanto politico e recente “Mezzanine Tour” dei Massive Attack. La didascalia “nessuno è più schiavo di colui che si ritiene libero senza esserlo” (dalle Affinità elettive di Goethe) corre sulla coreografia di The Wall, con una fila di ballerini che da prigionieri in stile Guantanamo si liberano dalle uniformi in una danza euforica. Si dispiega ovviamente anche gran parte dell’iconografia psichedelica più riconoscibile dei Pink Floyd: la piramide di raggi laser della cover di “Storm Yorgerson”, le ciminiere e la centrale elettrica di Battersea di “Animals”, gli elementi siderali e lunari, il maiale che sorvola il pubblico con la scritta stay human, fino ai video dai colori acidi che raffigurano Trump e la sua rozza retorica: a dimostrazione che i pigs (sinonimo nell’originale di politici ipocriti e scriteriati), a distanza di decenni dall’exploit di quegli album epocali, non sono mai usciti di scena.


Se i fans hanno quello che si aspettano, non ultima un’esecuzione tecnica ineccepibile della super band, il 76enne Waters, t-shirt e jeans neri stretti d’ordinanza, occhi e voce stanchi, braccia che si spalancano con parsimonia, porta sulle spalle tutta la storia di uno degli ultimi veri rocker in circolazione (come il luciferino Keith Richards, suo coetaneo). Ma si illumina improvvisamente quando è il momento di sottolineare (e la regia cerca spesso le reazioni del pubblico più giovane), anche col gesto del dito medio, la contestazione verso i leader vettori del neoliberismo più selvaggio, che stanno condannando il pianeta (“picture a leader with no fucking brains”). Protagonista di uno show ad altissima definizione digitale, il suo corpo consumato, simbolo di un’era leggendaria perché analogica, rivendica ostinatamente il diritto di non mollare la scena, di essere ancora un tenace portavoce della resistenza.

Raffaella Giancristofaro – mymovies.it

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