Judy

Rupert Goold

Nell’ultimo periodo della sua vita, Judy Garland è ancora un nome che suscita ammirazione e il ricordo di un’età dell’oro del cinema americano, ma è anche sola, divorziata quattro volte, senza più la voce di una volta, senza un soldo e senza un contratto, perché ritenuta inaffidabile e dunque non assicurabile. Per amore dei figli più piccoli, è costretta ad accettare una tournée canora a Londra, ma il ritorno sul palco risveglia anche i fantasmi che la perseguitano da sempre. Un biopic certo canonico ma cui il richiamo dell’applauso, dell’affetto del pubblico come salvezza dalla solitudine regalano commossa partecipazione. Un melodramma che riesce a coinvolgere, avvicinando lo spettatore alla tragica diva raccontata.

Gran Bretagna 2019 (118′)

  Come ciclicamente accade, questo periodo è fertile di biopic su grandi stelle della musica, viventi e non. Musical forti di brani vincenti ed interpretazioni sorprendentemente mimetiche. Gli attori si trasfigurano in Freddy Mercury, Elton John, Judy Garland – senza dimenticare gli interessanti esperimenti Nico 1988 e Summer. I film mettono in scena storie ad alto tasso drammatico, esemplari parabole di riscatto e caduta, dalle stalle alle stelle e ritorno, dal sogno del talento coronato dal trionfo all’autodistruzione più epica.
Raccontare il privato dei divi è già carta vincente, che dà forma concreta al mondo nascosto dietro al palcoscenico. Tornando un po’ indietro nel tempo, non potendo quindi contare sul ricordo ed il legame con una larga fetta del pubblico, Judy riporta sullo schermo, nei suoi ultimi mesi di vita, la sfortunata Garland. Diva bambina, proiettata nell’empireo della celebrità di serie A dal primo grande successo – Il mago di Oz – , destinato a restare nell’immaginario, e un po’ bambina per sempre. Un talento gigantesco nel canto, nel ballo e nella recitazione, ben esemplificato da È nata una stella, troppo sballottato dalle leggi e gli accidenti dello star system, ma anche dalla sua personale instabilità (Judy fu ben più vicina al personaggio del partner difficile della nuova stella, che nel famoso film si brucia la carriera).
Da un lato un’immagine candida, mai prorompente e provocante come quella di tante colleghe, dall’altra una vita reale lontanissima da ogni favola. Il plot, insomma, è già completo in sé, e rielabora lo spettacolo teatrale End of the Rainbow di Peter Quilter. Il film punta tutto sulla sua protagonista – Judy e la Zellweger che la incarna quasi annullandosi in lei – che decide di seguire scena per scena, primo piano dopo primo piano, senza controcanto a quel che lei fa e vive.

Il prologo ci annuncia quel che accadrà, ci rivela l’origine del trionfo e della sofferenza. La rinuncia ad una vita comune/normale, scelta senza ritorno consumata con sguardo poco convinto. Una proposta che non si poteva rifiutare: addio alla libertà, pur di avere quello che tutte vorrebbero, pur di sfuggire ad un destino da cassiera o casalinga, grazie a qualcosa che le altre non hanno, una voce straordinaria. Ma quella decisione pesa da subito, è evidente che non funzionerà (la Garland, figlia di genitori artisti, ebbe un cammino segnato fin da bambina, ma difficilmente le venne chiesto di scegliere o di prendere consapevolezza della strada che stava imboccando). I flashback, numerosi e didascalici, ci svelano tutto. Nulla, dunque, viene lasciato all’immaginazione, né restano stimoli a congetturare che cosa possa nascondersi in una natura che non serba segreti per lo spettatore. Il presente, il 1969, ci mostra Judy senza soldi, indebitata, affamata, senza un posto dove dormire con due figli piccoli sballottati loro malgrado. E’ già una stella cadente; la pellicola ci fa intuire ma non ci mostra mai il momento del suo splendore. La fase a cui assistiamo è quella della debole lotta per non affondare. Londra è l’occasione, obbligata, per risollevarsi, con una serie di recital al Talk of the Town. Un esilio solitario fatto di insonnia, bicchieri pieni e pillole. Quando il medico le chiede cosa faccia per la depressione, Judy risponde secca “Quattro mariti. Non ha funzionato”. Ed è chiaro l’accenno ai tentativi di suicidio. Con un inserto probabilmente fantasioso si mostra la Garland cercare la compagnia di due fan sconosciuti, incontrati per caso per strada dopo lo spettacolo, due persone che con la loro fedeltà ed entusiasmo le hanno trasmesso calore.


Fortunatamente, non si tratta di un film su una persona semplicemente vittima dell’insensibilità altrui. Benché si debba inevitabilmente empatizzare con Judy, donna disperata che ispira compassione, si intuisce un carattere impossibile. La donna si presenta sul palco ubriaca, in condizioni fisiche pessime, o non si presenta proprio; la rottura con l’ultimo marito è più che pretestuosa ed ingiustificabile. Nei rari momenti di ironia la protagonista, con fulminante cinismo, liquida i suoi rapporti con gli uomini con la battuta “Ogni volta che taglio una torta mi ritrovo sposata ad un coglione”.
Le canzoni inserite in abbondanza durante la pellicola inquadrano sempre il preciso stato d’animo del momento e arricchiscono la visione con show di buon livello. La Garland che si esibisce è il doppio della mesta Garland privata, ritrova e trasmette immediata positività anche quando tutto crolla. Il richiamo dell’applauso, dell’affetto del pubblico come salvezza dalla solitudine, la umanizzano, fino alla scena finale, che non manca di ricattare, ma difficilmente poteva non esserci. E anche se il film è schematico e sfiora il melodramma, riesce a coinvolgere, avvicinando lo spettatore alla tragica diva raccontata. E Renee Zellweger, che già si era ben cimentata col canto nel musical Chicago, riesce nell’impresa affidatale e rilancia la propria carriera..

Raffella Saso – spietati.it

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