Mi chiamo Altan e faccio vignette

Stefano Consiglio

Un racconto sulla vita e la carriera del grande disegnatore con l’aiuto dei suoi personaggi, fra tutti Pimpa e Cipputi, e dei suoi amici e colleghi, da Rumiz a Serra, da Vauro a Staino e Zerocalcare. Un documentario su di lui e sul Paese che ha raccontato e che sta continuando a raccontare da oltre quarant’anni, con tutte le sue aspirazioni, le sue evoluzioni e involuzioni.

Italia 2019 (74′)


L’intento fondamentale del film è di raccontare per la prima volta Francesco Tullio-Altan, o più semplicemente Altan, una delle penne più acuminate d’Italia, capace di creare i personaggi più diversi per dialogare con un pubblico eterogeneo: adulti e bambini, bambini diventati adulti e adulti tornati bambini. Ovviamente il tutto è possibile grazie alla disponibilità e collaborazione dell’artista e delle sua famiglia, che ci consentirà di scoprire, senza invadenza, sia il lato pubblico sia privato del personaggio. Il passato e il presente di un artista che passa dall’una all’altra delle sue personalità con la naturalezza sintomatica del suo vivace camaleonte Kamillo Kromo, deliziando il suo pubblico con la precisione intelligente dei suoi strali satirici, con la sensualità del suo disegno morbidamente curvilineo, con la gioia cromatica dei suoi contrasti vivaci, con la ferocia affettuosa del suo sguardo, rendendoci in qualche modo più leggibile, e persino più accettabile, il caos del mondo – e dell’Italia in particolare. Significa dunque raccontare oltre quarant’anni di storia italiana, dagli anni Settanta a oggi. Una carriera artistica che spazia dal fumetto per adulti (Ada, Colombo, Franz, Brandelli, Macao, Cuori pazzi, ecc) alla vignetta di satira politica e di costume costume (con la creazione di nuove azzeccate maschere della nostra infinita commedia dell’arte, tra cui l’operaio Cipputi), dalla produzione narrativa e illustrativa per bambini (dai primi Libri della Kika alla Pimpa, nata nel 1975 per far divertire la figlia Francesca) alle molte visualizzazioni di opere di narrativa tra cui quelle di Antonio Porta, Gianni Rodari e Roberto Piumini.
Quarant’anni di lavori, con personaggi che fanno parte ormai dell’immaginario culturale e politico del nostro Paese. Cipputi è forse il suo più noto, capace di ricordarci come la nostra sia una società complessa, che ha vissuto trasformazioni che in questi anni hanno cambiato radicalmente la stessa figura della classe operaia. Insieme a questo c’è la sua sterminata produzione che potremmo chiamare filosofica; lo stile di Altan è molto particolare, ha un tratto “spesso” e molto morbido, con cui delinea personaggi a loro volta morbidi e ben nutriti, figli di una società opulenta e dissipatrice, spesso seduti mollemente per terra (se donne, meglio se seminude) o seduti compostamente dietro una scrivania (se uomini) a sentenziare e scoprire, per mezzo di lapidarie frasi un’Italietta ed un mondo piccolo piccolo. Usa il suo particolar modo di raccontare e di intromettersi nelle vicende narrate. Si concede, a questo scopo, un piccolo spazio bianco in fondo alle vignette, spazio in cui inserire le sue considerazioni o far risaltare pensieri sugli accadimenti narrati, sociali, politici, di costume, accompagnando il lettore e rendendolo più partecipe delle vicende trattate. La sua grandezza sta qui, poche parole per delineare e leggere una realtà che è intorno a noi. E con questo documentario si proverà a capirla, raccontarla e diffonderla.

note di regia

Il titolo, Mi chiamo Altan e faccio vignette, è particolarmente evocativo e richiede una piccola digressione. “Mi chiamo John Ford, faccio western” fu l’incipit della storica replica – in sede di assemblea della Directors Guild – che arginò l’attacco sferrato da Cecil B. De Mille al presidente in carica Joseph L. Mankiewicz, accusato di simpatie comuniste. Serafico, il grande vecchio irlandese, già titolare di quattro Oscar (nessuno dei quali per un western), liquidò l’offensiva e mandò tutti a dormire. Low profile e buon senso, non c’è niente di meglio.

Teresa Marchesi – huffingtonpost.it


“Altan non va in televisione, Altan non appare quasi mai e questo ha creato intorno ad Altan un alone di leggenda. Ma Altan detesta gli aloni”
. Basterebbero queste parole di Stefano Benni per dare l’umore di un film lucido e disincantato come Mi chiamo Altan e faccio vignette di Stefano Consiglio, presentato al Torino Film Festival. Altan è un personaggio trasparente e criptico al tempo stesso come le battute delle sue vignette: “che cosa ho fatto per dover nascere di sinistra?”, si chiede uno dei suoi personaggi; oppure “l’importante è non essere un qualunquista qualunque”.
Il ritratto del vignettista serve da filtro per raccontare i sogni perduti, il disincanto, le stonature di un’epoca. Cipputi, il mitico operaio Cipputi, è il protagonista di tante vignette di Altan, l’occhio che guarda da lontano con uno sguardo sempre obliquo quello che accade nel suo universo. Nel percorso di Altan, Cipputi interpreta il tramonto della centralità della classe operaia, l’emergere di altre sensibilità. Ma è anche una sorta di termometro; sa adattarsi al linguaggio che cambia, sa mantenere una sua dignità: “Aggiornarsi Cipputi, oggi vige il lìberal”, lo apostrofa un tipo à la page. E lui: “Voglio venirle incontro, mi chiami còmunist”.
Siamo ancora negli anni Settanta e Ottanta. Essere di sinistra diventa quasi d’improvviso un peso e i nuovi Cipputi si vedono nei paesi della periferia del paese: quelli in cui si afferma la Lega, sono i Cipputi che non votano più comunista. Lo sguardo del vignettista è implacabile: la realtà complessa di quegli anni si lascia cogliere solo nella forma del paradosso, della para-doxa, del controsenso, come nei disegni impossibili alla Saul Steinberg. O come nella battuta “Sono ateo, grazie a Dio”.
L’arte del vignettista è un po’ anche l’arte del cinema, quella cioè di intuire i grandi cambiamenti sociali, dando loro una forma, fulminante nel caso della vignetta, più metaforica nel caso del cinema. Il vignettista è sempre oltre, è fuori tempo e fuori luogo, o in ogni tempo e in ogni luogo, sapendo che di luoghi non ce ne sono. È questa la sua utopia, letteralmente. Dove si colloca politicamente il vignettista? Si colloca sempre “altrove”, più che stare da questa o quella parte lui “non sta”.
In questo senso Altan è imprendibile, inclassificabile: un po’ comunista, un po’ anarchico, un po’ “altaniano di centro”. La satira è questione di inquietudine, per cui gli ispiratori di Altan sono gli inquieti del loro tempo: Grosz, Daumier, Carl Barks, che è l’inventore di Paperino. Non possono esserlo invece quelli che usano la satira in forma consolatoria, stile Bagaglino o Forattini. O anche il Benigni televisivo, pallida ombra del dissacratore del tempo di Cioni Mario.
Nel film Paolo Rumiz, cronista di Repubblica, racconta di un viaggio in bicicletta fatto con Altan fino a Istanbul: oltre 2000 km, aspettando di incontrare “l’uomo diverso da noi”, il momento in cui, per esempio, la nostra gestualità non funziona più. Ebbene, col procedere del viaggio, l’impressione era opposta: “più andavamo verso oriente e più ci sentivamo a casa”. E Altan illustra questa impressione con la vignetta dei due ciclisti in cui uno chiede all’altro: “Nessuno ci deruba, la polizia non chiede il pizzo, niente aggressioni e i cani non mordono”. E l’altro di rimando: “Che facciano apposta per confonderci le idee?”. Tutto il film di Consiglio è questo: il tentativo, riuscito, di (non) definire Altan in qualche modo. Perché, come dice Benni, “non si può chiedere ad Altan che cos’è un Altan”.

Augusto Sainati – ilfattoquotidiano.it

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