Padrenostro

Roma, 1976. Valerio ha dieci anni e una fervida immaginazione. La sua vita di bambino viene sconvolta quando, insieme alla madre Gina, assiste all’attentato ai danni di suo padre Alfonso da parte di un commando di terroristi. La paura e il senso di vulnerabilità segnano drammaticamente i sentimenti di tutta la famiglia, ma l’incontro con Christian, un ragazzino solitario e ribelle, cambierà per sempre le loro vite.

Italia 2020 (122′)
VENEZIA 77° – Coppa Volpi interpretazione maschile (Pierfrancesco Favino)


N
el 1976 il vicequestore Alfonso Noce viene ferito in un attentato per mano dei Nuclei Armati Proletari, in cui persero la vita il poliziotto Prisco Palumbo e il terrorista Martino Zichittella. Oggi, a distanza di molto tempo, Claudio Noce (che all’epoca aveva due anni) parte da quell’evento che vide coinvolto il padre per portare sullo schermo un anomalo romanzo di formazione con protagonista Valerio (Mattia Garaci), bambino di 10 anni la cui vita viene sconvolta quando, insieme alla madre Gina (Barbara Ronchi), assiste all’attentato ai danni del genitore (Pierfrancesco Favino) da parte di un commando di terroristi.
Coraggioso nelle premesse, eccessivo nella resa, Padrenostro chiede moltissimo – forse troppo – al suo giovane interprete principale (di fatto presente in ogni inquadratura) e abusa spesso e volentieri di ralenti e lirismi (…)
Nonostante questo, e qualche incongruenza a livello strutturale, il film regala comunque alcuni momenti di angosciosa sospensione, insistendo molto sulla paura e sul senso di vulnerabilità che inevitabilmente segnano i giorni e lo stato d’animo di quella famiglia. Ambientato negli anni ’70, a Roma e in Calabria, Padrenostro è operazione autobiografica basata sui ricordi e sull’immaginazione: centrale da questo punto di vista la figura di Christian (Francesco Gheghi), ragazzo di 14 anni che irrompe dal nulla nell’esistenza di Valerio: solitario, ribelle, sfrontato, appare e scompare in determinate situazioni.
Claudio Noce (anche autore dello script con Enrico Audenino) – che nella seconda parte del film, quella calabrese, con la famiglia d’origine del vicequestore – scimmiotta le sfumature ambientali e cromatiche care al Salvatores di Io non ho paura – si serve di questa figura “misteriosa” per provare a mandare a dama l’intera operazione, come da titolo, ricordando (?), immaginando (?) un’impossibile amicizia tra due vittime innocenti, “invisibili”, di un periodo infame, quello degli anni di piombo.

Valerio Sammarco – cinematografo.it

  …S’infila negli anni tormentati dal dramma del terrorismo, qui di stampo brigatista, cercando una chiave interpretativa alternativa, seguendo la reazione del bambino Valerio, il cui padre (Favino) viene ferito in un attentato, nel quale muore il terrorista. Siamo a metà degli anni ’70 e Valerio, che assiste alla tragica scena senza farsi notare dalla mamma, rielabora questo drammatico evento facendo la conoscenza di Christian, un ragazzo più grande di lui, che sembrerebbe inizialmente una figura fantasmatica, ma che poi viene “riconosciuta” anche dal resto della famiglia.
A Claudio Noce, il cui padre era vice-questore all’epoca, non interessa un’ulteriore lettura storica e politica di quegli anni (il terrorismo, cuore centrale dell’idea portante, resta spesso laterale alla narrazione), ma semmai la volontà, anche protettiva, di tacerlo, nasconderlo, in famiglia come in società: lo sguardo di Valerio diventa quindi la rielaborazione di una generazione nel fare i conti definitivamente con quel periodo, per trovare il modo per superarlo, come la scena finale nella metropolitana induce a suggerire. L’intento è stimolante, ma a Noce non riesce purtroppo un’adeguata simbiosi nello sconfinamento continuo tra la realtà e la sua proiezione che Valerio crea; e questo diventa già un problema. In più, volendo aggregare cinema d’autore e cinema di genere, costringe il film a subire tutto un armamentario estetico (ralenti, inquadrature sghembe, sfocati, movimenti di macchina irrilevanti ed esibizionisti), che non sembrano spesso giustificati (un male ricorrente di molti registi che vogliono farsi “notare”), scatenando spesso emozioni a comando, come l’uso delle canzoni dell’epoca a palla (De Gregori durante la sparatoria, la PFM nella cruciale agnizione di Christian) o, peggio ancora, come l’ormai abusato stop immagine-sguardo in macchina finale (con tanto di spiegone su chi sono i personaggi da adulti)…

Adriano De Grandis – Il Gazzettino

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