Il volto crudo della montagna, a tratti accogliente, a tratti inospitale, capace di creare solidarietà ma anche di dividere gli animi e accumulare sospetti. Un luogo che sa far emergere le proprie verità nell’isolamento e nel silenzio.
Un figlio scomparso senza mai esser ritrovato, un caso irrisolto, un padre che va alla sua ricerca dopo tanto tempo. L’ambientazione del nuovo film di Lucia Zanettin, Malacarne, (prodotto dall’indipendente LiLLa Film e sostenuto dal Centro di Cinematografia e Cineteca del CAI) è quella della Val Daone, Val di Fumo, in Trentino ma anche di Borgo Valbelluna, e parla di un territorio impervio, difficile, dove si muovono pochi personaggi che sembra si guardino sospettosi uno dell’altro. Una barista, a valle, il padre del ragazzo, così sconosciuto a quel territorio, una guida particolarmente acida, introversa, una malgara, Mirka, di stanza fissa in quota, a poco cammino dalle Buse di Malacarne, e il ragazzo stesso che rivive nei flashback. A parte quest’ultimo che è protagonista di una storia al passato, i quattro si incontrano e si confrontano bene o male che sia, nel tentativo di aiutare Giovanni, andato fin lassù alla ricerca del figlio, a sua volta alla ricerca di stimoli nuovi, forse una vita migliore, da capire. Le suggestive vette della montagna acuiscono i rapporti tra loro, li mettono a dura prova in qualche situazione, regalando bellezza delle immagini che però in questo specifico diventa anche spietata, dura da digerire.
La montagna, quella che pare si sia si presa il ragazzo è considerata maledetta anche da chi ci abita attorno, ha una sinistra fama che non invita certo allo stare tranquilli. I personaggi si muovono come i dialoghi che si scambiano, in un clima di rarefazione estrema, che a sua volta imprime loro una schiettezza riservata, straniante. E’ mistero, ed è fascino, perché non si sa dove si va a parare, le circostanze non lo ammettono e non danno indizi. Il ricercare ossessivamente da parte del padre, Giovanni, suo figlio, fa affiorare diverse sfumature di personalità, che svelano a poco a poco, lentamente, gli stessi personaggi mostrando di loro la propria (giusta?) causa, il proprio essere ed essere lì, e non in un altro luogo. La Zanettin nel suo lavoro va a cogliere minuziosamente, scavando dentro i suoi protagonisti, ogni anfratto ancestrale che va a richiamare il sogno, a volte l’incubo, la poesia, il surreale e i suoi meandri. La ricerca di Giovanni è anche la ricerca degli altri, e può esser letta a mio modo di vedere come una ricerca terza simbolica e metafora dell’esistenza. Il film si racconta da sé, è un lento crescendo che apostrofa l’esistenza terrena e sfiora quella celeste, portando lo spettatore a più bivi: sto facendo la cosa giusta? Sto ascoltando la persona giusta? Non mi starò sbagliando? Sono interrogativi che paiono apparire sui volti di tutti, sicuri e insicuri, che raccontino verità nascoste o altro ancora.
Fatto sta che la storia si evolve lentissima e scopre minimi aspetti a prima vista di routine che tali però non sono, e indicano un trivio dove bisogna saper riuscire a distinguere l‘apertura della via d’uscita. Bravi sono tutti gli attori, da Anna Zago che disegna una barista con bella umanità a Fabio Barone, il figlio scomparso, disincantato e sognatore a tal punto da far “impazzire” gli altri nel loro cercare, a Sofia Vigliar, la malgara Mirka, emblema femminile che richiama, diventa mito, ed è sola nel suo stare in vetta, ma direttrice di se stessa, come si conviene essere. La sua forte figura femminile è tratteggiata con spirito e istinto, con durezza di roccia montanara, appunto, vigile attenzione agli accadimenti. La guardia Albert, impersonato da Samuele Ferri, parla di se stesso come di una persona spigolosa e un po’ insicura che in qualche modo attrae, nella quale l’attore veneziano mette un’ottima dose di cinismo e solidità d’animo, con una recitazione secca, ruvida, quasi rassegnata, che sbarra le porte dell’io, non concedendo nulla di sé, ed è un’intelligente, bella prova d’attore. Come lo è quella di Piergiorgio Piccoli, che suscita tenerezza con quella sua maschera tragica, quel viso buono che parla di sé in semplicità, alla ricerca di un figlio sprovveduto, avventuriero senza averne i mezzi. O ammaliato, chissà. Piccoli declina stati d’animo a profusione, e concede la sua esperienza nel ruolo assegnatogli. Detto degli interpreti, la regia di Lucia Zanettin è certamente in crescita rispetto allo scorso lavoro (La val che urla), le riprese sono d’effetto, consolidate e vincenti, regalano paesaggi e stati emotivi di alti livelli…
Francesco Bettin – sipario.it