Una donna sposata

Jean-Luc Godard

La cronaca di 24 ore nella vita di una giovane donna, Charlotte, sposata con un pilota d’aereo, che ha anche una relazione extraconiugale con Robert, attore di teatro. Memorabile e suggestiva la sessualità messa in scena da Godard, espressa in una serie di estetizzanti primissimi piani, che frammentano la visione del corpo, al di là di ogni scavo psicologico.

Une femme mariée
b/n Francia 1964 (98′)

«Frammenti di un film girato nel 1964»: si apre con questa didascalia Una donna sposata, pellicola che ricorda alcuni momenti de Il disprezzo (1963) e che, allo stesso tempo, potrebbe essere definito come un ipotetico seguito di Questa è la mia vita (1962). Jean-Luc Godard sviluppa una radiografia sulla donna contemporanea, approfondendo la psicologia, i vizi e le virtù della sua protagonista, ben interpretata da Macha Méril. Facendo ricorso anche a inserti e modelli pubblicitari tipici della pop art, Godard dipinge un quadro complesso, strutturato con cura e incorniciato da due sequenze identiche e diverse allo stesso tempo. Marito o amante, cambia poco o nulla, ciò che è (forse) diverso è il comportamento della donna che si ritrova incinta senza sapere chi sia il padre. Senza giudicare e semplicemente mostrando, il regista sviluppa una riflessione sulla società dei consumi, che viene contrapposta al passato (i campi di concentramento). Un film notevolissimo e agghiacciante per la capacità di mettere sullo schermo, con tanta e tale lucidità, l’alienazione della donna moderna. Inizialmente, il titolo originale era La femme mariée, ma la censura ha sostituito l’articolo determinativo con quello indeterminativo.

longtake.it

Charlotte è sposata con Pierre ed è l’amante di Robert. In attesa che il marito torni dalla Germania, fa l’amore con Pierre e va a prendere a scuola il figlio di primo letto di Pierre. Quando questi torna dal suo viaggio di lavoro conosce il regista Roger Leenhardt, il quale ha assistito all’apertura del processo ai carcerieri di Auschwitz. Charlotte lavora per un rotocalco femminile, incontra alcune fotomodelle, frequente bar e locali e infine va a farsi visitare da un ginecologo. È incinta, ma non sa se dire se di Pierre o di Robert. Quest’ultimo, attore di teatro, sta partendo per una tournée e la invita a raggiungerlo in un cinema vicino all’aeroporto: i due fanno ancora una volta l’amore insieme, come all’inizio del film.
Diretto da Godard nel giro di una sola estate, in tempo per presentarlo alla Mostra di Venezia, il film venne censurato in patria e la produzione fu costretta a mutare l’articolo del titolo originale: non più La femme mariée ma Une femme mariée.
Un corpo spezzato, un braccio, una mano, una gamba, una nuca, una bocca senza occhi, gli occhi senza la bocca: è così che Jean-Luc Godard mette in scena fin dalla prima sequenza del film la donna sposata di metà anni Sessanta, qui interpretata dall’attrice franco-russa Macha Méril. Non “una” donna, ma “la” donna, come avrebbe dovuto essere in origine, insieme emblema e vittima della società dei consumi, del capitalismo che trasforma i corpi in merce, la merce in desideri e gli oggetti in pubblicità. Charlotte è “spezzata” dal montaggio – e idealmente dallo sguardo di una società intera – come prima di lei la Nana (Anna Karina) di Questa è la mia vita (1962) e a suo modo anche l’Emilia (Brigitte Bardot) di Il disprezzo (1963), ripresa nuda e in continuità nella straordinaria sequenza d’apertura, ma frammentata dalle parole («Ti piacciono le mie gambe?… Ti piacciono anche le mie ginocchia?… E le mie cosce?… Pensi che sia bello il mio culo?»…), prima che qualche anno più tardi, nel 1967, in Due o tre cose che so di lei, di fronte a un altro ritratto di donna sposata lo stesso Godard si chiedesse quali fossero le parole e le immagini giuste da usare per raccontare qualsiasi cosa – un corpo, un’attrice, una macchina, un palazzo, un oggetto, una città… Dei film del primo periodo di Godard, che comprende gli anni delle Nouvelle Vague e va dal 1960 al 1967, Una donna sposata è tra i meno noti, ma anche tra i più efficaci e chiari: un film da etnologo, come l’ha definito il suo regista, analitico per il modo in cui osserva la vita e la figura della protagonista, donna borghese con un marito e un amante, occupata nel suo lavoro ma destinata a diventare madre, immersa come tutto ciò che la circonda in un bianco e nero piatto e senza sfumature, come solo l’operatore Raoul Coutard a quell’epoca sapeva fare. La donna di una società primitiva, all’alba della sua evoluzione.

A rivederlo oggi – in versione restaurata – a colpire è proprio la straordinaria precisione del lavoro di Godard sull’immagine e sulla superficie dei corpi, accostati all’idea di merce dalla stessa voce fuoricampo che tra un dialogo e l’altro recita slogan pubblicitari sulla bellezza femminile. L’analisi sociologica passa soprattutto per quest’opera di trasfigurazione della realtà in immaginario, attraverso le forme della società di massa: il cinema, prima di tutto (e qui per la prima volta si parla di Auschwitz e di responsabilità di chi crea le immagini, come confermato dal film proiettato nel cinema di Orly: Notte e nebbia di Resnais), ma poi anche i rotocalchi, la moda, il teatro, il consumismo, le canzonette (Sylvie Vartan canta “Quand le film est triste”), la rivoluzione sessuale, la barriera ormai crollata tra realtà e finzione… A risultare forse più ostica per un pubblico come quello odierno, non più abituato a un’idea di cinema così complessa e dialettica, è la struttura narrativa del film, costruito attorno a tre scene d’amore e a sette stranianti monologhi di vari personaggi, che toccano temi come l’amore, la memoria, il presente, l’intelligenza, il matrimonio, e citano episodi storici, film, filosofi e scrittori come Céline (del resto la domestica di Charlotte si chiama mademoiselle Céline, e ruba le parole del suo pezzo da “Morte a credito”): anche per questo, però, i film di Godard restano dei meravigliosi testi aperti, figli del loro tempo, sì, ma mai datati, e anzi espressione di un genio ora scomparso ma mai superato, capace di interrogarsi con ironia, audacia, divertimento e magnifica arroganza sul ruolo del cinema nel raccontare la vita e i suoi personaggi, a cominciare da quelli femminili come Charlotte, amati, ammirati, vivisezionati e resi immortali dalla macchina da presa.

Carolina Caterina Minguzzi – cinefiliaritrovata.it

Lascia un commento