La Divina di Francia – Sarah Bernhardt

Guillaume Nicloux

Un autentico mito, Sarah Bernhardt è stata la prima “star” conosciuta a livello mondiale: non solo ha lasciato un’impronta indelebile nella sua epoca, ma il suo nome è rimasto vivo per tutto il XX secolo e lo è ancora oggi. Tra trionfi teatrali, amori appassionati e sfide personali, la Bernhardt emerge come una figura ribelle, audace e modernissima, capace di sfidare le convenzioni e riscrivere le regole del suo tempo. Un ritratto vibrante e sensuale.


Sarah Bernhardt, la Divine
Francia/Belgio 2024 (98′)
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    Il film narra il dietro le quinte della folgorante carriera dell’attrice più famosa nell’Ottocento francese: Sarah Bernhardt viene mostrata in tutto il suo carisma e umanità, innamorata dell’attore Lucien Guitry e costretta all’amputazione della gamba destra nel 1915. A far da sfondo alla narrazione, c’è una Parigi in pieno fermento culturale, dove la personalità forte dell’attrice, soprannominata la Divina e La voce d’oro, calamitava l’attenzione di artisti e letterati. Bernhardt ha lasciato un segno indelebile nel panorama culturale, infrangendo le convenzioni sociali grazie alla sua personalità audace e alle sue interpretazioni. Ebbe un figlio a vent’anni dal legame con un nobile belga, ma si sposò poi con un attore greco la cui dipendenza da morfina causò la fine del rapporto. Si dichiarò pubblicamente bisessuale e intrattenne diverse relazioni con artisti e colleghi: tra loro Gustave Doré, Georges Clairin, e attori come Mounet-Sully, Lou Tellegen. Visse per anni con la pittrice Louise Abbéma, che la ritrasse in alcuni suoi dipinti. Si circondò inoltre di artisti come Alphonse Mucha – che per lei realizzò alcune scenografie – Victor Hugo, di cui si pensa sia stata l’amante e Gabriele D’Annunzio, il cui epistolario rivela che oltre alla collaborazione teatrale vi fosse anche una relazione intima. Proprio il rapporto con D’Annunzio, oltre al successo in scena, ha fatto ipotizzare la competizione tra Bernhardt e Duse, scomparse a distanza di un anno l’una dall’altra.

Roberta Pisa – artribune.com

   “Per 29 anni ho trasmesso al pubblico le vibrazioni della mia anima, il battito del mio cuore e le mie lacrime. Ho interpretato 112 ruoli. Ho lottato come nessun altro”. Con una figura storica e artistica immensa come quella di Sarah Bernhardt, la Divina, un’attrice che ai suoi tempi era famosa in tutto il mondo e il cui funerale vide affluire a Parigi 600.000 persone nel 1923, l’esperto regista Guillaume Nicloux ha indubbiamente affrontato un’impresa ad alto rischio realizzando La divina di Francia – Sarah Bernhardt. È anche abbastanza sorprendente, sulla carta, vedere un cineasta così unico imbarcarsi nell’avventura del biopic, un genere affrontato per lo più dai soliti nomi. Ma sembra che il regista non abbia rinunciato a nessuna delle sue strane e incredibilmente personali passioni. Dalla sceneggiatura (scritta da Nathalie Leuthreau) ha infatti tratto un film incredibilmente audace, a volte al limite dello sconcertante. Un’opera di cui si potrebbe dire, con le parole della stessa protagonista, “se non è vero, bisogna mentire con la massima sincerità”, perché “la verità esiste solo al presente, quindi raccontarla è già mentire, no?”. Questo rapporto elastico e plastico tra verità e menzogna è naturalmente appannaggio dei grandi interpreti di teatro, come Sarah Bernhardt (Sandrine Kiberlain), che il film mostra mentre recita l’agonia de La signora delle camelie sul palco del Théâtre de la Renaissance. “Metti la verità in tutti i tuoi gesti, e dei singhiozzi così amari nella tua voce, che le lacrime ti scendono davvero sulle guance”, si entusiasma uno dei suoi numerosi amanti, Edmond Rostand (anche se non mancano nemmeno le amanti donne, come Louise, interpretata da Amira Casar), in occasione della consacrazione dell’attrice nel 1896. “Un giorno che doveva essere felice, ma che si rivelò il più terribile, quando persi l’amore della mia vita”, racconta Sarah molti anni dopo, nel 1915, al giovane Sacha Guitry, da un letto d’ospedale mentre si riprende dall’amputazione di una gamba. Perché questa indomabile amazzone, circondata dal suo popolo, questo personaggio dominante, capriccioso, libero e ambizioso che si dedica completamente alla sua arte, ama profondamente anche suo padre, l’attore Lucien Guitry (Laurent Lafitte), dal 1886. E chi dice amore dice sofferenza (“il cuore deve sanguinare perché il pubblico provi qualcosa”).

Navigando vertiginosamente tra tre diversi periodi temporali (1915, 1896 e 1886), il film dipinge il ritratto di una donna insolita, femminista ed eccessiva (in termini di generosità, spavalderia, acutezza, rapporto con il denaro e la gloria, sofferenze passate e presenti, ecc.), aprendo una finestra intima sulla linea sottile e parossistica che separa la persona dalla celebrità. Girato in mezzo a splendidi decori (per gentile concessione di Olivier Radot) ma sempre pienamente incentrato sulla sua protagonista, il lungometraggio gioca con il linguaggio delle emozioni in un clima un po’ morboso dove i dolori dell’anima e del corpo trasudano sotto la febbre della mondanità (si incrociano Émile Zola, Sigmund Freud e molti altri) aggravata dall’Affare Dreyfus. In questo senso, l’insieme infonde una sensazione di indiscutibile qualità ma anche di stranezza che allontana il film dai soliti canoni del biopic, trasformandolo in un’opera ibrida, artistica e più divisiva, specchio di questa gigante del teatro che riteneva che “non bisogna passare troppo tempo a odiare, perché è molto faticoso; disprezzare molto, perdonare spesso e non dimenticare mai”.

Fabien Lemercier – cineuropa.org

 

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