giugno 2010

trimestrale di cinema, cultura e altro... ©

n° 28
Reg.1757 (PD 20/08/01)

pag. 5
 

   ...Tale successo di pubblico costituisce un giusto riconoscimento alla formula scelta dagli organizzatori di questo Festival, che, nato come esperienza di nicchia, è giunto ad occupare un posto di primissima fila tra i maggiori eventi internazionali, non solo per la qualità dei film selezionati, ma anche perché ha mantenuto fede alla sua impostazione, tenendosi lontano dai meccanismi di potere e aprendo una finestra importante sulla cultura sia popolare che d’èlite, senza distinzioni gerarchiche, dell’Estremo Oriente.
Film vincitore, secondo i voti degli Audience Awards, è risultato il coreano Castaway On The Moon di Lee Hey-jun, storia di un moderno Robinson, finito per caso, dopo un fallito tentativo di suicidio, in un isoletta deserta nel fiume che attraversa una delle più caotiche metropoli del mondo, Seul; secondo classificato il giapponese Accidental Kidnapper, omaggio in chiave ironica a Un mondo perfetto, del giovanissimo Hideo Sakaki, che ha scatenato il pubblico dichiarando di avere intenzione di girare un film con Berlusconi e terzo è risultato il poetico The Dreamer dell’indonesiano Riri Riza (classificatosi terzo anche nel 2009 con Rainbow Troops).
Tra gli eventi collaterali si sono rivelate molto interessanti le
due retrospettive: una dedicata alla casa di produzione giapponese Shin Toho, specializzata in film di genere, noir, crime thriller, cruciali per la sintassi del cinema popolare nipponico, di cui sono stati proiettati 15 film degli anni Cinquanta Sessanta, mai visti fuori dal Giappone, l’altra al regista di Hong Kong Patrick Lung Kong, anticipatore della New Wave degli anni Ottanta e ispiratore di molti importanti registi, tra cui il John Woo (a cui verrà attribuito il Leone d’oro alla carriera nella prossima edizione del Festival di Venezia) di A Better Tomorrow e The Killer.

Cristina Menegolli

The Window
Patrick Lung Kong - Hong Kong 1968

Accidental Kidnapper (Yukai Rhapsody)
Hideo Sakaki - Giappone 2010

La commovente storia d’amore tra un killer e una ragazza cieca raccontata da John Woo nel suo film più famoso The Killer del 1989 è un omaggio a questo bellissimo film di Patrick Lung Kong proiettato per la prima volta in Italia, ad Udine, nell’ambito della retrospettiva che il Far East Film, in collaborazione con l’Hong Kong Film Archive, ha dedicato a questo regista, poco conosciuto da noi, ma molto importante per il contributo innovatore portato all’interno della cinematografia di Hong Kong.
Attore, regista e sceneggiatore Patrick Lung Kong dagli anni ’50 in poi ha realizzato 12 film, rivoluzionando linguaggio e temi del cinema del suo paese e anticipando le tendenze New Wave degli autori che, negli anni ’80, hanno fatto conoscere ed apprezzare in Occidente la cinematografia di Hong Kong.
Il film si apre con una scena sorprendente: un giovane, elegantemente quanto pacchianamente vestito (Patrick Tse), ruba una macchina sportiva decappottabile e sfugge alla polizia. Nulla di particolare, se non che la situazione, ma soprattutto la colonna sonora identica, rievocano immediatamente un altro incipit analogo: quello di Fino all’ultimo respiro (1960) di Godard.
Nel corso di una rapina gli capiterà poi di uccidere accidentalmente un anziano signore e di finire, per nascondersi, proprio a casa della figlia della vittima, una ragazza cieca (Siao), della quale si innamorerà e per la quale abbandonerà i suoi due balordi compagni, tentando di redimersi.
In questa cornice Lung crea un melodramma appassionato e ultracommovente, in cui convivono felicemente i temi e i modi del gangster movie, quelli del dramma familiare e quelli del film romantico, un impasto che ritroviamo appunto nei primi film di John Woo.

Nel raccontare la storia d’amore Lung dimostra una sensibilità particolare nel delineare i progressivi cambiamenti che si producono nei due personaggi, mostrandoci come Lui insegni alla ragazza a vedere il mondo con gli occhi della mente e Lei a sua volta faccia emergere in lui una sensibilità fino allora trattenuta. La scena in cui Tse cerca di spiegare i colori del mondo alla ragazza è bellissima nella sua semplicità ed essenzialità.

Pur avendo tutte le caratteristiche di un film destinato al grande pubblico (abbondantemente fornito di fazzoletti) la forza e l’originalità delle inquadrature oltre che alcune sorprendenti soluzioni di montaggio, che giustificano la citazione iniziale, fanno emergere la mano di un vero grande autore.

 

Mi è capitato recentemente di assistere in Giappone alla fioritura dei ciliegi, fenomeno già di per sé spettacolare, basti pensare che in un parco di Tokyo ce ne sono 1800, ma che in quel paese diventa occasione di una grande festa popolare in cui intere famiglie, abbandonando le occupazioni abituali, si riversano nei parchi per la contemplazione del fenomeno, che, simbolicamente, nella cultura scintoista, diventa espressione di vitalità e di longevità, ma nello stesso tempo ricorda la precarietà di tutte le cose, data la velocità con cui i petali, appena dischiusi, cadono.Non a caso il film  del giovane regista giapponese Hideo Sakaki si apre e si chiude tra i ciliegi in fiore.
Il film racconta infatti la storia di una “resurrezione” di un giovane delinquente di mezza tacca Date (Takahashi Katsunori), che, giunto al capolinea di una vita sprecata, senza affetti e senza denaro, decide di farla finita, mettendo in atto due inutili tentativi di suicidio, in mezzo agli alberi in fiore. Capita però sulla sua strada un ragazzino (Hayashi Roi), che è scappato da casa e Date decide di giocarsi un’ ultima carta: fingere un rapimento per farsi pagare un riscatto dalla ricca famiglia del bambino.

Inutile dire, dato che il film è liberamente ispirato a Un giorno perfetto (1993) di Clint Eastwood, che tra i due nascerà un’amicizia: il piccolo Densuke, che ha vissuto un’esistenza protetta e timorosa all’ombra del suo terribile padre, impara dal suo rapitore cosa siano la virilità e la libertà, Date scopre le gioie di una paternità di cui può godere in via transitoria e si affeziona veramente al bambino, recuperando la voglia di vivere.
Gli elementi sembrerebbero quelli del tipico melodramma giapponese agrodolce, sennonché Sakaki sa mantenersi abilmente al confine tra commedia e dramma, distribuendo con raffinatezza e leggerezza in ugual misura lacrime e risate e giocando sul piano narrativo con continui cambi e capovolgimenti di situazioni.

Infatti a complicare le cose, oltre al legame che si è venuto a creare tra i due, intervengono alcuni fatti sorprendenti. Il padre del bambino è il capo di una famigerata banda di gangster, che si mette in moto per ritrovarlo, la polizia, insospettita dai movimenti della gang, ne organizza la sorveglianza e il capo poliziotto si troverà doppiamente invischiato personalmente nella storia per un motivo che non riveliamo, in quanto fa parte di uno dei tanti colpi di scena che caratterizzano l’intero film, disseminandolo di gag e di sorprese.

Il finale, ancora una volta ambientato nel giardino dei ciliegi, segna il distacco tra i due, che dovranno seguire strade diverse, ma che l’esperienza in comune ha profondamente cambiato, aprendoli a una nuova vita. Per quanto? Non si sa, d’altra parte anche i ciliegi sfioriscono presto.
 

La dodicesima edizione del Far East Film Festival si è rivelata una sorpresa. Preannunciata un’edizione minore a causa dei scellerati tagli alla cultura che hanno immancabilmente colpito anche la regione Friuli Venezia Giulia, di fatto, lo sbobinarsi del programma ha poi dimostrato ben altre derive verso cui abbandonare le proprie attenzioni cinefile, le quali, anche in mancanza di possibili nomi riconosciuti o attesi, hanno trovato sostanza preziosa per alimentare la loro intrinseca necessità di (re)visione e scoperta. Ancora una volta, la pulsante ambizione del cinema a riprodursi come in una sorta di meccanismo ideale ed eterno, travalica i contenitori e i limiti entro i quali, per forza di cose, viene inserito, e rimarca la propria presenza con la sola potenza sublime della propria ontologia costitutiva.
                                                                                                                Alessandro Tognolo

Boys on the Run
Miura Daisuke - Giappone 2010

The Fair Love
Shin Yeon-shick - Corea del Sud 2010

  È presumibilmente tutta una questione di sensibilità, di percezione e ricostituzione mai ovvia dei sentimenti pressoché limiti dei quali disponiamo, e - in definitiva - di sguardo sulle costanti inevitabili della natura umana, dalle componenti rimarchevolmente discrepanti, se, nel cinema giapponese, è possibile coniugare la estrosa e prolifica tradizione del manga con le esigenze di realtà dei tradizionali generi cinematografici quali la commedia e il dramma. Non certo una novità per le produzioni made in Japan, e anzi, il più delle volte, una necessaria derivazione per garantire visibilità e successo tra il pubblico, il quale, senza distinzioni di età e sesso, dimostra di prediligere, e ancor più precisamente, di avere un legame famelico con il fumetto e l’animazione. Di fatto attraverso questi due territori espressivi è possibile rintracciare lo snodarsi di qualunque possibilità e modalità di interazione e attrazione figurabile dall’immaginazione, in ogni sorta di variabilità tematica, illustrazione espositiva, declinazione d’animo, desiderio interdetto e interpretazione antropologica. E dunque, quel che rappresenta un attributo culturale specifico, a ben vedere, ricopre e palesa una carica e una funzione in qualche modo assente nella cononica ritualità cinematografica, rintracciabile probabilmente nella palese ed eccentrica razionalizzazione estetica, da parte dei suoi personaggi, delle proprie reazioni intime e impronunciabili, ma così effettivamente inseribili in un processo identificatorio ad ampio spettro e di forte impatto.

Miura Daisuke, trentacinquenne regista e drammaturgo indipendente, giunto con Boys on the Run al suo terzo lungometraggio (dopo First love, 2003, e Soul train, 2006), dimostra essenzialmente di riuscire a manipolare i generi più diversi, e soprattutto ad estrarre da essi gli elementi necessari per formare una sintesi personale, in continuo dialogo tra le molteplici sfumature del comico, della commedia, e infine del dramma. Proprio come avviene spesso nei manga.

Del resto infatti,
Boys on the Run è tratto dal manga omonimo di Hanazawa Kengo, storia all’apparenza semplice e scontata del giovane Toshiyuki Tanishi, umile venditore per una piccola azienda che produce i giocattoli con cui vengono riempiti i distributori automatici, ossessionato da Chiharu, la collega più carina, ma incapace di stabilire una relazione con le donne, e dunque ancora vergine, e costretto a vivere in casa con i genitori. In sostanza emblema di un inveterato fallimento. Ma dietro a questa inerte esuvia da perdente, si nasconde l’anima di un lottatore: quando un venditore concorrente bello, disinvolto e senza scrupoli gli soffia Chiharu (che incredibilmente aveva iniziato a ricambiare il suo interesse), Tanishi non può resistere al desiderio di vendicarsi, e dimostrare la sua volontà. E per farlo deve, prima di tutto, imparare a fare a pugni...


Ma Boys on the Run non è un film simbolico sulla rivincita dei nerd. Il destino di Tanishi è tutt’altro che scontato e prevedibile. Ciò che conta per Miura è l’intenzionalità scaturita dai sui personaggi, e l’intensità dei sentimenti che li animano. Inattesi, imprevedibili, cangianti e tuttavia mai patetici, quanto all’apparenza sopiti e indolenti. Attorno al protagonista ruotano figure eccentriche come il collega ubriacone, improvvisato e insospettabile insegnante di boxe, e la prostituta non più adolescente, sorta di sbandato feticcio materno e coadiuvante del trofismo sessuale per giovani innamorati, grazie all’aiuto dei quali si instaura in Tanishi un meccanismo di riflessione che lo porterà alla rivolta e al cambiamento.

Quel che è certo, nessuno dei personaggi di
Boys on the Run è dispensato da un’ingloriosa delusione per la propria vita. Ed è proprio per questo che, alla fine. non sarà possibile catalogarli su piani morali di correttezza o malvagità: non ci sono buoni o cattivi, e niente di per sé è giusto o sbagliato. La sofferenza, decorosa e negata, identifica la vera costante per il mondo creato da Miura, ed il sesso ne è il principale organismo scatenante. La componente sessuale è rappresentata senza alcuna verecondia, né sentimentalismo né dolcezza né sdilinquimento, in tutto il suo necessario ed eccitante squallore, e allo stesso tempo mistificata da un realismo demenziale e dissacrante. Ecco allora che emerge la cifra comica: si ride, molto, improvvisamente, colti di sorpresa. E’ con questi elementi che Daisuke Miura scompagina i generi ed è nel versante buffo che si costituisce, irrazionalmente forse, la completa identità dei personaggi; esattamente come accade nel fumetto giapponese. Sarebbe quanto mai rischioso rapportarsi a questo film senza considerare il filtro iperbolico e vincolante di questo riferimento ipertestuale. Così come non si potrebbe apprezzare appieno l’interpretazione del protagonista Mineta Kazunobu (visto anche nella commedia adolescenziale sulla ricerca del mitico “free secksu” - l’amore libero, siamo negli anni Settanta - Oh, my Buddha! di Taguchi Tomorowo, in cui interpretava l’hippie Hige Godzilla, Godzilla Barbuto), autentico materiale plastico da conformare, espressione debordante di un trasformismo in grado di far convivere nel proprio corpo orgoglio e crudeltà, dolore e tenerezza, rabbia e imbarazzo. Il suo Tanishi, eludendo prudentemente la compassione, realizza il percorso di affermazione e redenzione di un’identità qualunque, marginale, comune, senza qualità che le possano permettere di renderla diversa o speciale o distinguibile all’interno di un sistema sociale saturo e costantemente alla ricerca dell’elemento elitario, nonché della classica prevedibile incarnazione di forza e bellezza. Pazienza se l’esito si rivelerà poi amaro e imprevisto. Tanishi non rappresenta un modello di speranza, piuttosto la possibilità di un’alternativa, che non equivale mai alla soluzione, ma al tentativo che può modificare il contesto. Nonostante Tanishi continui, dopo tutti gli sforzi, ad essere un perdente, alla fine è nettamente un uomo diverso. Tutto porta a pensare che la sua vita non sarà diversa, ma l’approccio ad essa gli permetterà di prendere delle decisioni diverse. E questo costituisce un radicale cambiamento.

The Fair Love è un film classico. Classico per lo stile adottato e per la storia che affronta. Ma non per questo anacronistico, e anzi, lo svolgersi pacato del racconto, reso così tangibilmente familiare per finezza di caratterizzazione, e facilità di comprensione, gli conferiscono una potenza inconsueta, e il dono prezioso di riuscire a tracciare un’impressione durevole nei ricordi. Un traguardo, se si pensa che il film in questione è una commedia romantica sull’amore tra un cinquantenne e una ragazza di trent’anni più giovane. Un argomento non certo scabroso e rintracciabile nell’ordinaria trattazione cronachistica e pseudo-scandalistica, o piuttosto, letteraria e cinematografica, ma tuttavia cagionante un inevitabile dispendio di giudizi moralistici tendenti al biasimo e all’interdizione. Al di là delle possibili (e rinviabili) congetture riguardo le cause, il cinema, in questa sede, dimostra, ancora una volta, di essere l’artefice di un proprio autorevole senso etico, dilatato e fondativo, e una comprensione dei sentimenti umani priva di costr(u/i)zioni scomode e castranti, nel tentativo costante di minare l’inutile muro della vergogna che obnubila gli occhi e, provocatoriamente, documentare, con profondo rispetto e sensibilità, un accadimento spontaneo e positivo, riferito a quella sfera dei sentimenti che quasi sempre si tende a trascendere.
Già il titolo (in italiano sarebbe L’amore lecito) pone da subito un tacito interrogativo analitico sulla natura relazionale di un determinato rapporto, e infatti il riferimento non è al fair di My Fair Lady, ma al detto “In guerra e in amore tutto è lecito [fair]”. È proprio in questa prospettiva che nasce e si consuma l’amore del tutto imprevisto e imprevedibile tra Hyung-man, un solitario uomo sulla cinquantina, proprietario di un negozio in cui ripara macchine fotografiche, e Nam-eun, la figlia ventenne di un ex amico di Hyung-man, quell’amico che alcuni anni prima gli ha sottratto i risparmi di una vita ed è fuggito. Il loro incontro avviene in circostanze particolari, quando il vecchio conoscente, sul letto di morte, chiama Hyung-man, dapprima, per porgli delle scuse poco convincenti, e poi per chiedergli il favore di passare a casa di tanto in tanto per dare un’occhiata a sua figlia, la quale, dopo la sua morte rimarrà sola. Pur non dovendo nulla a quell’uomo, Hyung-man, forse spinto dalla misericordia, o per bontà d’animo, o semplice curiosità, decide di andare a trovare la ragazza.

Ciò che rende speciale questa storia d’amore è proprio il suo non essere speciale. L’autore compie una precisa scelta formale e decide di rappresentare questo incontro come un evento che non possiede nulla di eccezionale. I due amanti non vengono colpiti da un amore a prima vista né da una passione travolgente. I loro incontri costituiscono prima di tutto il delicato avvicinamento di due solitudini, indolenti e ramificate; e la reciproca scoperta di una visione dell’altro alternativa, stimolante e remissiva. Ma in che modo può essere vissuto o deve consumarsi questo amore incomprensibile? E quale significato distintivo lo rende tale? A cosa può servire o cosa può cambiare per i due protagonisti intraprendendo questo azzardo?
Un film di intenzioni sfumate, in cui i piccoli e stupidi gesti quotidiani sono la naturale manifestazione di una tensione emotiva mai pretestuosa e glorificata. E fa sorridere l’atteggiamento da ragazzino innamorato di Hyung-man: ma - diversamente che per lo spettatore - non c’è imbarazzo nei suoi occhi nel portare i fiori fuori da scuola, o assentarsi da una riunione di lavoro per parlare al telefonino. La conclusione segue il destino naturale di ogni storia d’amore, mantenendo e rimarcando l’ipotesi di critica verosimiglianza con la credibilità dell’accadimento realistico. Nessun compiacimento di buoni sentimenti dunque, ma solo i frammenti dell’inganno triturante prodotto dall’adesione ingenua e sfrenata al al fantasma narcisistico dell’amore. Ancora una volta il diavolo è femmina (parafrasando il titolo italiano del film di George Cukor del 1935), e l’uomo subisce il declino della volontà a cui si aggrappa sempre più affannosamente. Allietandosi nel ricordo.
Shin Yeon-shick è un autore lontano dal circuito mainstream coreano. Il suo debutto alla regia nel 2003 con The piano lesson, costato solo 400 dollari e girato in cinque giorni, è la storia di una donna che produce un video cd sulla vita e le opere di Chopin, mentre il successivo A great actor (2005) prodotto con un budget di 3000 dollari, è la descrizione dettagliata delle esperienze di un uomo che entra in una compagnia teatrale.
The Fair Love, diretto, sceneggiato e prodotto come in precedenza dallo stesso Yeon-shick, è stato presentato per la prima volta al Pusan International Film Festival del 2009 ed è uscito nelle sale coreane nel gennaio 2010. Questo film rappresenta probabilmente uno dei migliori risultati derivanti (anche se non dichiaratamente, ma in virtù di memetica diffusione culturale) da quel filone di genere ibrido e serializzato, molto diffuso in Oriente ma, a quanto pare, ancora poco esportabile e decifrabile nella nostra Europa, legato all’enorme successo delle serie televisive coreane, i dramaKorean drama da cui si è sviluppato il fenomeno della Korean wave). I drama esprimono attraverso criteri formali abbordabili e attraenti la necessità di sviluppo di storie in cui le tematiche sentimentali sono al centro delle vicende dei protagonisti - perlopiù teenager e giovani che hanno da poco passato l’adolescenza, ma non solo -impegnati nella gestione di rapporti spesso contraddittori, tra loro e con gli adulti, e in cui vi sia un chiaro e reperibile riferimento alla vita di tutti i giorni. Com’è ovvio poi entrano in gioco molte variabili che ne determinano caratteristiche e sottogeneri, ma in qualunque caso (come spesso accade nei serial) è ribadito il primato della scrittura. A partire da un accurato riguardo per la sceneggiatura si dipana tutta la struttura del gioco dei sentimenti e il suo imprevedibile decorso cosparso di espedienti più o meno comici e drammatici.

The Fair Love racchiude, nella compattezza della forma cinematografica, la calibrata componente testuale, legata a una dimensione tematica concettualmente fruibile e necessaria, e una messa in scena in grado di sussumere un’arbitrarietà di sguardo, certamente indipendente da qualsivoglia modello precostituito e perciò scissa dai tempi e dalla fredda eleganza concernenti il ristretto contesto dell’assetto televisivo.
Un tentativo dunque che permette di rintracciare la suscettibilità e assieme l’elaborazione strutturale invalsi nel perpetuo, seducente, inafferrabile divenire del cinema, e nel dettaglio, di quel cinema “exotic, authentic, hands-free, no safety” su cui si posano di anno in anno gli occhi del cinefilo in attesa di soddisfare analiticamente il proprio desiderio di rinvenimento e conoscenza.