A Melody To Remember,
tratto da una storia vera, è per molti versi un film ispiratore e
commovente che parla di amore, sacrificio e altruismo. Ma è anche
una storia ambientata nel contesto di una guerra terribile e
insensata. È l’anno 1952, a due anni dall’inizio della Guerra di
Corea. Nel bel mezzo del conflitto, il tenente Han Sang-ryul patisce
un’altra tragica perdita e si ritrova completamente solo al mondo,
senza famiglia. Ritornato a Busan dal fronte, egli lotta per
trattenere il proprio dolore. Poi, un giorno, gli viene chiesto di
dare una mano in una casa di accoglienza per bambini rifugiati che
sono rimasti orfani di recente. Nella sua vita prima della guerra,
Sang-ryul aveva studiato musica e quando suona il pianoforte la
musica sembra fluire da un altro mondo. Anche se non è nello stato
d’animo giusto per esibirsi, lui stesso alla fine decide di
organizzare un coro di bambini assieme alla responsabile della casa
di accoglienza.
Sori: Voice from the Heart
prova invece a cercare uno sprazzo di
originalità narrativa, cercando di affrancarsi dalle più che
giustificate critiche mosse negli ultimi anni alle case di
produzione sudcoreane, accusate di rimaneggiare sempre le stesse
idee e linee narrative ormai trite. Fatto salvo un ancoraggio alla
realtà con il ricordo del tragico incendio nella metropolitana di
Daegu del 2003, il film è di fatto improntato tutto su forti
emozioni come ci ha abituato il cinema coreano ormai da tempo. In
questo caso la novità è costituita dall’elemento fantascientifico,
S19 (successivamente rinominato Sori), un satellite spia di
fabbricazione statunitense che, nelle scene di apertura del film, è
in orbita sopra la Terra. Anche se ufficialmente si tratta di un
banale satellite per le telecomunicazioni, in realtà è tutt’altra
cosa. Munito di intelligenza artificiale all’avanguardia e di una
tecnologia di riconoscimento vocale, Sori ha il segreto compito di
registrare tutte le conversazioni telefoniche terrestri. Ma alla
fine, il satellite consapevole capisce che le conversazioni
registrate vengono utilizzate per orchestrare attacchi da parte di
droni in cui civili innocenti verranno feriti e uccisi. Tormentato,
Sori decide di disertare. Sori incontra Hae-gwan su una spiaggia
deserta lungo la costa coreana. Sori ha bisogno dell’aiuto di
Hae-gwan per muoversi sulla superficie terrestre, soprattutto perché
vuole andare in Medio Oriente ad aiutare le vittime degli attacchi
con droni. Hae-gwan, dal canto suo, si rende conto che la tecnologia
di Sori potrebbe aiutarlo a trovare sua figlia.
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La gloria del passato è al centro di una rielaborazione, attraverso
il ricordo che non vuole essere pedissequa imitazione ma punto di
partenza per evitare una definitiva perdita di identità, soprattutto
per il cinema di Hong Kong. Ne sono fortunati esempi il ritorno
dietro la macchina da presa dopo vent’anni di un nome leggendario
per le arti marziali, Sammo Hung, con il film
The Bodyguard e
The Mobfathers, primo capitolo su una nuova saga sulle triadi firmata da
Herman Yau.
Se il popolare maestro di kung-fu sfrutta la senescenza e i limiti
del corpo con un’ironia solo apparentemente semplicistica per
rievocare una stagione in via di deperimento e i dubbi per un futuro
sociale e cinematografico altrettanto infiacchiti e malmessi,
The Mobfathers riprende i fasti di un genere tra i più caratterizzanti
per Hong Kong e li vira in una chiave politica strettamente connessa
con i fatti di cronaca che hanno coinvolto l’ex colonia inglese.
In una carriera cinematografica che abbraccia più di cinque decenni
come regista, attore, coreografo di azione, produttore e molto
altro, Sammo Hung ha arricchito enormemente il cinema di Hong Kong
con il suo duro lavoro e il suo spirito innovatore, che spazia tra i
generi più diversi e per questo il
Far East Film Festival 18 ha
deciso di assegnargli il Gelso d’Oro alla carriera.
Per il suo
ultimo film Hung è regista, coreografo e protagonista, nei panni di
un ex agente della squadra di protezione civile d’élite Central
Security Bureau che ora vive nell’estremo nord della Cina. La vita
da pensionato però è tutt’altro che idilliaca: il vecchio accusa i
primi segni di demenza senile ed è ossessionato dalla perdita
devastante della nipote, scomparsa mentre era affidata a lui.
The Bodyguard mette insieme azione - sia comica che cupa - e dramma
delicato, confermando ancora una volta le capacità di Sammo di
rinnovare le miscele di generi in nome dell’intrattenimento.
Problemi interni alle triadi, legami familiari e tensione politica
entrano in collisione in
The Mobfathers, una cupa epopea sulla
malavita del prolifico autore hongkonghese Herman Yau. Al centro di
tutto c’è Chuck Lam (Chapman To, anche produttore), un capo
divisione della potente banda criminale Jing Hing, che finisce in
prigione dopo una sanguinosa rissa di strada e che quando esce,
parecchi anni dopo, si ritrova catapultato al centro di una caotica
elezione criminale. Chuck sa cavarsela con la mannaia e affronta
energicamente i combattimenti tra fazioni, ma ne viene messo in luce
anche il lato familiare, quando si sforza di ristabilire un contatto
con il figlio che non vedeva da anni e si dà da fare perché il
bambino possa andare in una buona scuola e altro ancora. Chapman To
conferisce un atteggiamento rilassato a questo ruolo poliedrico,
passando da episodi divertenti quando si trova dietro le sbarre a
materiale di gran lunga più audace man mano che si inasprisce la
disfida elettorale. Come suo antagonista Gregory Wong è divertente
nel ruolo di un pacchiano e sfacciato volpone che sa il fatto suo,
mentre Anthony Wong si fa notare nei panni del sinistro capobanda
dalla voce roca che regge le fila di tutto.
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La visione che più di tutte rimarrà impressa in questa edizione del
FEFF arriva però dalla Thailandia ed è la più nitida, angosciante,
caustica e dolente messa in scena del raccapriccio esistenziale e
generazione dei tempi moderni.
Heart Attack, ispirato probabilmente
alla esperienza personale del suo scrittore e regista Nawapol
Thamrongrattanarit, esplora la vita quotidiana di un grafico
freelance, Yoon. Buona parte della storia descrive le condizioni
lavorative dei liberi professionisti in Thailandia, oberati di
lavoro, con una disponibilità di denaro insufficiente, senza amici
né previdenza sociale. La vita quotidiana di Yoon continuerebbe
così, se un giorno non comparisse sulla sua pelle una strana
eruzione cutanea. Lui va a farsi vedere da una dermatologa,
inaspettatamente dolce e della sue stessa età, la quale gli
prescrive dei farmaci che hanno un impatto enorme sulla sua vita
quotidiana.
Nawapol Thamrongrattanarit è forse lo scrittore e regista più famoso
e di moda della Thailandia, ed è conosciuto in Europa solo ai pochi
appassionati che hanno avuto modo di vedere Mary Is Happy, Mary Is
Happy alla Mostra del Cinema di Venezia del 2013 (che è stata
direttamente coinvolta nella produzione con il progetto Biennale
College Cinema). Il film si rivelò un successo a sorpresa,
nonostante la limitata distribuzione e i discreti incassi in patria,
soprattutto grazie alla crescente notorietà come scrittore del suo
giovane autore in grado di rivolgersi ad enormi fette di lettori e
lettrici della propria generazione. Thamrongrattanarit è conosciuto
per essere un regista perfettamente a suo agio sia nel cinema
d’essai sia nel cinema mainstream e di questo connubio Heart Attack
ne è la sintesi esemplare: il ritmo, l’azione, il romanticismo non
vengono a mai a mancare, con una ricerca nella messa in scena che
spinge verso una narrazione spontanea ma non scontata o vanamente
ammorbidita. La vita caotica di Yoon è illustrata mediante l’uso
della camera a mano, mentre la maggior parte delle altre scene sono
state riprese a debita distanza. Tutto il resto – il montaggio, il
trucco, la recitazione – viene lasciato a un livello minimale, in
contrasto con le interpretazioni sopra le righe che sono comuni in
Thailandia. Lo stile di scrittura di Thamrongrattanarit è sempre lo
stesso: una specie di satira empatica, resa grazie a caratteristici
dialoghi disinvolti e incisivi; l’autore si prende gioco dei modi di
vivere datati e delle opinioni dei suoi vecchi ma non li insulta
mai, scherza soltanto e, nel contempo, impostando il tutto come una
storia di formazione, rende evidente ciò che ama.
Heart Attack è
diventato il secondo film di maggiore incasso dell’anno e ha
realizzato più di 2,2 milioni di euro, oltre a fare man bassa di
diversi premi thailandesi.
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Alessandro Tognolo |
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Più che
sugli effetti speciali o splatter, quasi del tutto assenti, Jang Jae-Hyun
punta sull'approfondimento dei personaggi, aiutato in questo dalle
performance di due bravissimi attori (oltre al citato Kang Dong-won,
l'intenso Kim Yun-seok) , sa mantenere il racconto ragionevolmente
compatto e costruisce le scene importanti attraverso una serie di
dettagli credibili. Affronta tematiche di tipo teologico, senza per
questo rinunciare ad intervenire con tocchi ironici, che
interrompono la drammaticità delle situazioni, mantenendole su un
piano accettabile, come quando il demone, che possiede la ragazza,
fulmina un walkman dal quale esce una musica sacra, brontolando:
“Quel dannato Bach!”.
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Molto
coinvolgente è risultato il film
giapponese
The Inerasable di
Nakamura Yoshihiro, tratto dal romanzo di Fuyumi Ono Zange.
Nakamura, che ha iniziato la sua carriera come sceneggiatore di film
horror, tra cui il celebre Dark water,
sviluppa in questo film un racconto avvincente, che si snoda in
maniera labirintica, seguendo le indagini di una scrittrice di
romanzi horror e di una studentessa, che cercano di far luce su
misteriosi fenomeni e morti violente verificatisi in uno stesso
luogo.
Tutto inizia quando la scrittrice, che si chiama semplicemente “Io”
(Watashi) (Takeuchi Yuko), riceve una mail da una studentessa Kubo (Hashimoto
Ai), che le racconta di udire strani fruscii all'interno del suo
appartamento. In seguito a una serie di coincidenze strane, le due
decidono di indagare sui precedenti inquilini della casa, ma
soprattutto sul passato della casa. Man mano che la ricerca procede,
lo spazio diventa protagonista della storia e le sue varie
stratificazioni temporali fanno emergere un passato torbido, che
coinvolgerà sempre più direttamente le protagoniste, in particolare
la scrittrice. Il racconto è costruito in maniera tale che anche lo
spettatore partecipi al crescendo di angoscia che investe le due
protagoniste man mano che uno dei veli del tempo che sembrano
ricoprire quel luogo maledetto, viene sollevato, facendo emergere
una vecchia macchia, che non può essere cancellata, che ci obbliga a
prestarle attenzione e non solo ci ossessiona, ma anche ci insegue:
“the inerasebale”, l'inevitabile appunto.
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Le grandi aspettative per il film più promettente della giornata,
Creepy
di Kurosawa Kiyoshi, sono state invece in parte deluse, non solo
perché il film non si può giudicare del tutto riuscito, ma anche
perché forse ha risentito di un errore di collocazione nella
programmazione, trattandosi più di un
noir che di un
horror.
Kurosawa, regista di horror molto acclamato in Giappone e noto in
occidente per film come Pulse,
Tokio sonata e
The cure (Kyua),
in questa pellicola, presentata al Festival di Berlino e tratta dal
romanzo di Maekawa Yutaka, racconta la storia di un poliziotto in
crisi, Takakura (Nishima Hidetoshi), che, dopo aver dato le
dimissioni ed essere passato all'insegnamento, si trasferisce con la
moglie Yasuko (Takeuchi Yuko) in un nuovo quartiere. I tentativi
della donna di familiarizzare con i nuovi vicini non solo
falliranno, ma la porteranno a focalizzare l'attenzione su uno
strano personaggio, Nishino (Kagawa Teruyuki), che, passando da una
viscida ossequiosità a una minacciosa violenza verbale, la attirerà
in una trappola pericolosa. Le indagini dell'ex poliziotto
porteranno a scoprire tutto l'orrore che la casa di Nishino
nasconde. Un orrore che non è quello insito nel soprannaturale, ma
quello che si cela nelle pieghe della quotidianità, che ci circonda
senza che noi lo percepiamo, che sta acquattato nella casa del
vicino appunto o che ritroviamo quotidianamente nelle pagine di
cronaca nera.
Kurosawa, per creare il suo Creepy (da brivido) ha puntato più
sulle atmosfere cupe, noir, su particolari inquietanti, su
un'illuminazione sghemba e livida, che sul plot, che nel complesso
risulta piuttosto scontato, forse anche a causa della recitazione
troppo istrionica del personaggio chiave, Nishino. |
Cristina Menegolli |
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