giugno 2019

periodico di cinema, cultura e altro... ©
 

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Reg.1757 (PD 20/08/01)

 
 
 
 
speciale FESTIVAL DI UDINE

26 aprile- 4 maggio 2019

  Nei festival europei “importanti”, come Venezia, Cannes, Berlino, il cinema asiatico è in genere scarsamente rappresentato, fatta eccezione per la presenza di autori ormai di culto anche in Occidente, per cui il FAR EAST FILM FESTIVAL di Udine da ventuno anni a questa parte ha acquisito una rilevanza sempre maggiore nel diffondere in Europa, e non solo, ciò che la cinematografia di quei paesi ha prodotto negli ultimi anni.

Il numero degli accreditati professionali, ma soprattutto degli accreditati “cinephiles”, oltre a quello sempre numeroso degli spettatori occasionali, basterebbe a testimoniarne il successo e a riconoscere la validità del lavoro dei suoi organizzatori, penalizzati quest'anno da un taglio dei finanziamenti, tanto pesante quanto deprecabile. Ma file interminabili e sale affollatissime denotano un interesse che va al di là della semplice cinefilia. Certo l'attenzione dell'addetto ai lavori va in direzione della scoperta di nuovi linguaggi o di una lettura comparata delle diverse cinematografie, ma ciò che attira una folla così numerosa è soprattutto il fatto che il linguaggio universale del cinema permette di penetrare in mondi così lontani e nello stesso tempo così vicini, ma di cui in fondo si sa ben poco. L'abbondante offerta e la varietà dei paesi presenti (Cina, Hong Kong, Indonesia, Giappone, Malesia, Filippine, Sud Corea, Singapore, Taiwan, Tailandia, Vietnam) contribuisce inoltre a dissipare l'idea di un “unico” cinema asiatico: le differenze culturali tra Corea, Cina e Giappone, per citare i paesi più rappresentati, sono molto più forti di quelle tra i diversi stati europei. Il cinema che producono è estremamente diverso, differenze e legami risultano chiari confrontando ad esempio il modo di affrontare lo stesso tema o di realizzare lo stesso genere.
Il lavoro dei selezionatori si è dimostrato particolarmente attento a questi aspetti, raggruppando film di diversa provenienza sullo stesso tema. Quello della
vecchiaia, ad esempio, viene sviluppato con estrema lievità ed eleganza nel bel film giapponese Only the Cat Knows di Kobayashi Syoutarou, dove la sparizione del vecchio gatto di casa rimette in discussione i rapporti tra due coniugi, ormai alienati nella ripetitiva routine domestica, costringendoli a fare i conti col presente.
Più scontato è il modo in cui il tema viene affrontato nel film cinese
Crossing the Border di Huo Meng, dove nel corso di un viaggio nella bellissima campagna della Cina meridionale il vecchio nonno contadino ha modo di trasmettere la sua saggezza al nipotino di città. È il tema della demenza senile il centro di Romang del regista coreano Lee Chang-geun, che sceglie un registro drammatico, mentre il suo connazionale Lee Min-jae punta sul surreale con la divertente commedia The Odd Family: Zombie on Sale, in cui una strampalata famiglia si imbatte in uno zombie, che morde il capofamiglia, facendolo ringiovanire: tutti i vecchietti del paese accorreranno per questa bizzarra fonte di giovinezza, fornendo un pretesto alla famiglia per organizzare un business.
Vicino a questa tematica si può considerare anche il film opera prima della regista hongkonghese Oliver Chan (allieva di Fruit Chan)
Still Human, vincitore del primo premio della giuria popolare e della giuria Black Dragon, che dal registro prevalente della commedia passa a toni drammatici ed emozionali, mescolando realismo e sentimenti in un'alternanza di sguardo sui problemi sociali e sulla dimensione intima dei personaggi, nel raccontare il difficile rapporto tra un uomo costretto su una sedia a rotelle (l'acclamatissimo Anthony Wong) e la giovane badante filippina.


 

  Per quanto riguarda i generi, la cui distribuzione all'interno del programma è apparsa quest'anno più equilibrata, in deciso calo risulta la commedia giovanilistica, che cede il campo a tematiche familiari o intimistiche, svolte con ironia come nel film giapponese Lying to Mom di Nojiri Katsumi sugli stratagemmi messi in atto dai familiari per tenere nascosto alla madre il suicidio del figlio o spostando sui complessi rituali della cerimonia del tè il tema delle difficoltà di un'adolescente di trovare il suo ruolo , nel bel film di Omori Tatsushi Every Day a Good Day.
 

 

Anche il genere thriller, sempre molto presente, sembra voler superare la staticità e la ripetitività degli ultimi anni, con l'inserimento di tematiche sociali o politiche, come avviene in Default di Choi Kook-hee e in Dying to Survive di Wen Muye. Il primo è incentrato sulla crisi finanziaria del 1997, che porterà la Corea ad entrare nel FMI, per salvarsi dalla bancarotta, ma con grave danno per la popolazione. Ha un ritmo incalzante, ma anche troppo mutuato sui modelli del genere americani. Il secondo, che si è aggiudicato il secondo premio della giuria popolare, con perfetto controllo dei tempi e con un'impeccabile costruzione narrativa, capace di coinvolgere sempre più lo spettatore nelle dinamiche del racconto, segue il percorso, anche morale, di un piccolo trafficante, che contrabbanda dall'India dei medicinali contro il cancro, venduti in Cina dalle multinazionali a prezzi inaccessibili, facendosi via via sempre più coinvolgere dal problema dei malati e diventando alla fine un piccolo eroe nazionale.

Molti quest'anno i film appartenenti al genere horror, che pare abbia sempre molto successo in paesi come Giappone, Filippine, Corea, dove sembra addirittura essere il più proficuo a livello di incassi. Anche qui però si può notare come i film che si attengono a copioni consolidati, come Konpaku di Remi M Sali (Singapore) o il thailandese Krasue di Sittisiri Mongkolsiri abbiano ben poco da dire, mentre la contaminazione con altri generi o lo sconfinamento nella commedia, come nel già citato The Odd Family: Zombie on Sale, ridanno nuova linfa a un genere ormai troppo ripetitivo. Il più interessante in questo senso è il coreano Rampant di Kim Sung-hoon, una saga epica sulle lotte dinastiche del periodo Jeseon, dove agli intrighi di corte si aggiunge un'epidemia che trasforma le persone in zombie. Pirotecnico e divertente mix di zombie movie, dramma in costume e wuxia.

Alla ricca offerta di film in concorso sono state affiancate quest'anno una retrospettiva sul cinema coreano e una rassegna di documentari, oltre all'interessante progetto TEN YEARS, nato proprio a Udine nel 2016 in occasione della proiezione del film hongkonghese Ten Years, da un'iniziativa del team di Golden Scene e della produttrice Takamatsu, che hanno voluto estendere il progetto ad altre regioni dell'Asia: Thailandia, Taiwan, Giappone. Il risultato è dato da tre film a episodi in cui i registi hanno risposto all'invito di immaginare degli scenari futuri per i prossimi dieci anni nei loro paesi. E tra questi proprio Ten Years Thailand >> si è rivelato uno dei prodotti più interessanti e innovativi, dal punto di vista linguistico, di tutto il festival.

Cristina Menegolli

Audience Award
Still Human di Oliver CHEN, con Anthony WONG e Cristel CONSUNJI (Hong Kong, 2018) con una media di 4,53
Dying to Survive di WEN Mu Ye (China, 2018) con una media di 4,39
Extreme Job di LEE Byoung-heon (Korea, 2019) con una media di 4,30

Black Dragon Award
Still Human di Oliver CHEN, con Anthony WONG e Cristel CONSUNJI (Hong Kong, 2018) con una media di 4,34

Mymovies Award
Fly me to the Saitama di TAKEUCHI Hideki (Japan, 2019)

White Mulberry Award for First time director
Melancholic di TANAKA Seiji, (Japan, 2019)

Focus sulla commedia indipendente coreana

Abbiamo case degli inganni dei sensi, dove rappresentiamo tutti i generi di giochi di prestigio, false apparizioni, imbrogli e illusioni e le loro falsità.
                                                                                   Francis Bacon, 1626.

In un mercato in continuo mutamento, in cui la fruizione di immagini si moltiplica a dismisura così come i dispositivi attraverso i quali è possibile goderne, esiste davvero uno spazio per la produzione indipendente e slegata dalle major? E se c’è, che attenzione o interesse riesce a riscuotere da parte degli appassionati, degli esploratori, degli addetti ai lavori o addirittura dei semplici spettatori che vogliono scoprire una realtà forse più essenziale ma non per questo meno autentica? Quel che è certo, senza un necessario approfondimento - per quanto esiguo e sporadico - e la curiosità pionieristica verso il nuovo, non si potrebbe alimentare alcuna riflessione, finendo per lasciare ogni possibile domanda in bilico nella lacunosa e buia fossa dell’indifferenza. Ben venga dunque la breve e parallela intromissione all’interno della consueta selezione popolare del FEFF di tre titoli significativi della commedia indipendente della Corea del Sud degli ultimi anni.
Nomi sconosciuti, mezzi risicati, ambientazioni intime e tangibili, attori ispirati, percorsi narrativi fuori dagli schemi e libertà di sperimentare. Tutti elementi difficilmente riunificabili se non in un territorio veramente autonomo e svincolato dalle rigide regole del consumo delle grandi masse. Di fronte a una crisi sempre più profonda in patria, dove i finanziamenti governativi sono da decenni completamente azzerati, la scelta di attrarre un pubblico attraverso il film di genere non appare promettente, soprattutto per la commedia, e, ancora di più, per una commedia intrisa di elementi avulsi e splenici, coordinata verso una contemporaneità più inquieta e meno imbellettata. Un oblio certo e prefigurato dunque, una lotta impari e un destino amaro. Proprio per questo i registi di questi film meritano di essere accolti e citati. E dopo aver soddisfatto la visione è ancora più forte la convinzione che queste storie siano spesso di gran lunga più intense, brillanti e sediziose dei loro legittimati e ben più dispendiosi corrispettivi commerciali.
3 quindi i film proposti per questa incursione:

Passing Summer di Cho Sung-kyu
Saem di Hwang Kyu-il
Coffee Noir: Black Brown di Chang Hyun-sang.

Il primo si svolge interamente nella bellissima isola di Jeju, e segue le vicende di quattro personaggi che alloggiano in una pensione sulla spiaggia. Siamo fuori stagione, e quindi non c’è quasi nessuno in giro. In-gu è arrivato sull’isola per trascorrervi qualche giorno, ma appare fin da subito infastidito e a disagio. L’uomo sembra insoddisfatto della sua stanza e del cibo locale, ma la vera fonte del suo fastidio diventa palese in seguito: In-gu è l’ex fidanzato della moglie del proprietario della pensione. Non gli interessa la vacanza – ma vuole affrontare la sua ex e ottenere alcune risposte sul loro passato. Quella che sembra destinata a diventare una situazione profondamente problematica invece cambia improvvisamente tono, a causa di una coincidenza. Ci sono altre due donne che soggiornano in quella pensione: Chae-yoon e Ha-seo. La civettuola Ha-seo, attirata in questo posto dalla sua fama di luogo per surfisti, è delusa di scoprire che in questo periodo dell’anno non c’è molta gente in giro. Chae-yoon è più introspettiva e sembra felice di rilassarsi e fare la turista per caso, ma avrà una sorpresa inattesa: Jeong-bong, il proprietario della pensione, lavorava con lei a Seoul qualche anno prima. E, dal modo in cui si comportano l’uno con l’altra, sembra che non fossero solo semplici colleghi.


Il secondo ci porta a conoscere Du-sang, un ragazzo ossessionato dal suo primo amore, Saem. Ha perso ogni contatto con lei da diverso tempo, ma non riesce ancora a cancellarne il ricordo e ora che ha da poco compiuto vent’anni non pensa ad altro che a ritrovarla. Sentendo che potrebbe essere all’università a Seoul, vi si reca e si trasferisce nella camera in affitto di un suo amico. Ma c’è un problema: un incidente d’auto gli ha lasciato la prosopagnosia. Chiamata anche “cecità fisionomica”, è un deficit che impedisce al paziente di riconoscere i tratti di insieme di un volto – anche se altri aspetti del suo riconoscimento visivo rimangono inalterati. Per certi versi Du-sang può condurre una vita del tutto normale, ma questa malattia rende il suo obiettivo di individuare Saem particolarmente difficile. Nei giorni che si susseguono incontrerà tre donne, ognuna delle quali si relazionerà con lui (o cercherà di approfittare di lui) in modi diversi. Ma ai suoi occhi tutte somigliano a Saem.
 


Il terzo invece ruota attorno all’esclusiva caffetteria Black Brown, destinata alla chiusura quando il governo nazionale dichiara il caffè pericoloso per la salute perché dà forte assuefazione. Vengono approvate leggi che lo mettono al bando e si stabilisce anche una data oltre la quale chiunque venda o beva caffè sarà arrestato e severamente punito. Ma il Black Brown è gestito da veri amanti del caffè che non hanno alcuna intenzione di ottemperare a leggi che considerano ingiuste. E, mentre stampano nuovi menù con una selezione di tè e vari tipi di bevande aromatizzate alla frutta, iniziano zitti zitti la preparazione di un’attività clandestina che verrà condotta a tarda notte e in segreto.

 



Pur godendo ognuno di questi titoli una propria specificità ed esiti più e meno riusciti -
Passing Summer colpisce per la delicatezza e lievità nell’assecondare la fragile emotività della gestione dei ricordi e della solitudine, mentre, purtroppo, Coffee Noir: Black Brown non riesce in definitiva a dare un corpo unitario alle varie declinazioni del suo amalgama - quel che emerge è la consapevolezza dell’inganno della vita e della rappresentazione che ne consegue da parte dell’operare scopico. Nel continuo lancio e ritorno del desiderio, gli autori indipendenti appaiono molto consapevoli della limitatezza del concetto di realtà di fronte allo sconfinato e insidioso dispositivo pulsionale cinematografico.

Quel che ne risulta è un innesto nel perfetto quadro realistico della messa in scena: la perseveranza della ricerca dell’amore perduto da parte del protagonista di Saem appare sulla carta uno spreco energetico inutile e noi stessi, nel cercare di seguirlo, entriamo in un vortice di confusione nel quale ogni nuovo incontro con una ragazza ha l’aria di un deja-vu. Cosa stanno dunque vedendo i suoi occhi? Quale consapevolezza possiamo avere rispetto a ciò che ci appare e crediamo di sperimentare?

Allo stesso modo, il mondo di Coffee Noir: Black Brown appare in tutto e per tutto uguale al nostro, eppure nasconde qualcosa di occulto, regole pronte ad esplodere e una voglia di ribellarsi all’imposizione della normalità. Il regista sembra voler raschiare quella cortina di immutabile realismo e far emergere l’illusione che essa tende a celare. Illusione e falsità che i protagonisti di Passing Summer hanno così candidamente imparato a governare e soffocare, finendo per divenire una sorta di rappresentazioni rispettabili delle loro ambiguità.

“È possibile conoscere come è fatta la realtà indipendentemente dalla mediazione della nostra mente? Possiamo prescindere dalla condizione di esseri umani conoscenti e storicamente determinati ed elaborare un pensiero dell’assoluto? È lecito sostenere di avere accesso a quello che gli anglosassoni definiscono il “great outdoor”, il grande fuori, ovvero quello che è esistito, esiste ed esisterà indipendentemente dal nostro stare al mondo? “.
Non è di certo a queste colossali domande che questi film cercano di dare direttamente una risposta. Ma attraverso il cinema è possibile operare una formulazione del linguaggio che travalica la mera rappresentazione di una storia per farsi largo verso diagonali meno codificate e proprio per questo, come spesso accade nella scarsezza di mezzi, la scrittura emerge come incombenza sostanziale e vivifica: proprio nei dialoghi concisi e sommessi e nello scambio comunicativo tra i personaggi avviene quel passaggio fondamentale di scarto verso la banalità a favore di una ricognizione di un’alterità direzionale verso scenari ipotetici pronti a fecondare dubbi e insistenze teoretiche e morali. Non a caso ogni epilogo in queste commedie non pone alcuna fine e non risponde ad alcuna domanda, ma anzi, apre il discorso ancora di più, come a volerci dire: “è còmpito vostro ora fare i conti con voi stessi e la vostra mimesi”.
Secondo la psicoanalisi lacaniana il soggetto del desiderio inconscio non risiede nei propri istinti biologici e corporei che la civiltà non riesce a reprimere, ma si costituisce in uno spazio di incertezza linguistica dove il significato di una serie di significanti è incerto e lascia spazio a una domanda: cosa vogliono dire queste parole? Che cosa volevo dire io con queste parole? È come se nelle nostre stesse parole noi interrogassimo la natura del nostro desiderio più che verificare la loro adeguazione a un’intenzione preesistente il linguaggio. I corpi dei protagonisti dei film appaiono prima di tutto come organismi interroganti. E il loro riflesso si spinge oltre lo schermo. Oltre la limpida narrazione di qualche scorcio di vita. Una vita qualsiasi. Senza eroi, senza vincitori, senza compiacimento. Ma non per questo priva di un naturale intimo sorriso.

Alessandro Tognolo

 
 

in rete dal 09 giugno 2019

 

 

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