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Due anniversari, i
centotrent'anni dalla nascita di
Lubitsch
e i novanta da quella di
Truffaut possono essere un pretesto per una riflessione su quanto un
certo tipo di cinema debba a questi due maestri, ma
soprattutto su quanto essi abbiano influenzato i gusti e le
predilezioni di noi spettatori. |
ERNST LUBITSCH
(Berlino, 28/01/1892 – Los Angeles, 30/11/
1947) |
FRANCOIS TRUFFAUT
(Parigi, 6/02/1932 –
Neuilly-sur-Seine, 21/10/1984) |
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Nato
a Berlino nel 1892 da una famiglia della borghesia ebraica (il
padre aveva una sartoria),
Ernst Lubitsch
abbandonò presto gli studi per dedicarsi alla sua vera
passione, il teatro. Attore per Max Reinhardt, che considerò
sempre il suo grande maestro, poi comico di successo in farse
cinematografiche, Lubitsch divenne regista soltanto perché non
trovò più parti adatte. Dopo aver girato un numero
considerevole di pellicole in Germania, muovendosi
dall'operetta, al dramma in costume, alla commedia, (Die
Austernprinzipessin,
Die Puppe,
Sumurun)
nel 1923 si trasferì negli Stati Uniti, dove per la Paramount,
la Warner Brothers e infine per la MGM filmò più di quaranta
film, (tra i più noti:
Trouble in
Paradise-Mancia competente,
Design for
living-Partita a quattro,
Angel,
Ninotchka,
The Shop
Around the Corner-Scrivimi fermo posta,
To Be or
Not To Be-Vogliamo vivere)
affermandosi subito come il re della “commedia sofisticata”.
Il grande successo dei suoi film portò la critica ad
individuare nel suo stile un particolare “Lubitsch touch”,
che, semplificando al massimo, consisteva in una tecnica
narrativa tradotta in immagini che non mostravano tutti i
dettagli della trama, ma lasciavano allo spettatore il compito
di completarla, immaginando le scene o i dettagli mancanti.
Per questo i suoi film abbondano di voci e rumori che giungono
da altre stanze, di porte che si aprono e si chiudono, di
dialoghi pieni di sottintesi.
Nel suo cinema conta più il non
detto di quanto venga effettivamente pronunciato, quel che
resta al di là e al di fuori delle cornici dell'inquadratura
più di quello che ci mostra la macchina da presa. Un'arte
sulla quale sono state scritte pagine e pagine, ma della quale Billy Wilder, il suo più diretto erede, seppe dare l'esemplificazione forse più esaustiva: “La scena è di
The Merry
Widow
(1934) ed offre, mi sembra,un bellissimo esempio della tecnica
di Lubitsch, anche se si potrebbero di certo trovare una
dozzina di esempi altrettanto validi in ogni suo film. Si vede
un castello, una camera da letto, un re e la regina. La regina
è ancora a letto, il re si veste, bacia la moglie e lascia la
camera. Fuori dalla porta Maurice Chevalier monta la guardia.
Passa il re, Chevalier saluta, il re scompare dietro l'angolo.
Allora Chevalier si volta ed entra nella stanza, dalla regina.
Chiude la porta, lo spettatore non vede niente, solo la porta
da fuori, la macchina da presa non entra. Di nuovo il re: sta
scendendo le scale, ma si accorge di aver dimenticato la
sciabola. Dunque risale lentamente le scale, verso la camera
da letto. Il pubblico è lì, che aspetta il botto, che
inevitabilmente ci sarà. Il re apre la porta, entra, la
chiude. Di nuovo siamo fuori e ci immaginiamo quel che ora
succede nella stanza. La porta si riapre, il re esce dalla
stanza con la spada in mano, sorride. Non si è accorto di
niente, non c'è stato alcun botto. Si allontana lentamente,
cerca di allacciarsi la sciabola....ma, la cintura gli è
stretta, non è affatto la sua! Ora ha capito, torna indietro e
scopre Chevalier sotto il letto. Ognuno l'avrebbe risolta a
suo modo, ma nessuno l'avrebbe resa in maniera così elegante,
così spiritosa e intrigante per il pubblico, come Lubitsch.”
Partito dal muto, Lubitsch si dimostrò abilissimo nel processo
di visualizzazione della parola, come ha sottolineato spesso
Guido Fink. Un esempio perfetto in questo senso è
Lady
Windermere-Il
diario di Lady
Windermere
(1925), dove egli dovette far ricorso ad una tecnica del tutto
originale per creare un equivalente filmico di una commedia
tutta affidata al dialogo come quella di Oscar Wilde, senza
conservare nemmeno una battuta a livello di didascalia (Lubitsch
non amava le didascalie: “Dopotutto in pittura si capisce
tutto quello che l'autore vuol dire senza bisogno di scritte”.
Dichiarava al New York Times nel 1923). Capacità di
visualizzare e pensare nel linguaggio delle immagini che
ritroviamo in tutte le sue numerose trasposizioni da testi
letterari o teatrali. Da ciò è facile intuire come fosse
importante nel lavoro di questo grande autore, sia nella fase
ideativa che in quella realizzativa una precisa consapevolezza
del metodo, dei risultati da ottenere e delle vie per
ottenerli (Truffaut ricordava come anche le risate degli
spettatori risultassero già iscritte e previste nel copione).
Tutto era ordito, architettato nei minimi dettagli al fine di
ottenere un testo denso, polisemico, fatto di allusioni,
affermazioni e occultamenti, di ritmi e tonalità variatissime
su un tono e un ritmo di fondo.
“Signore dello spartito, regolatore della continuità e
discontinuità e del succedersi delle inquadrature-punti di
vista”, come lo definisce Vieri Razzini, Lubitsch,
all'inizio di
Die Puppe
(1919) mostra se stesso, che guarda dall'alto una casetta di
carta, un prato attraversato da un sentiero e dispone le prime
figurine destinate a scatenare l'azione.
Attento ad ogni particolare della messa in scena finanche alle
suggestioni esteriori: gli abiti, le acconciature, le
decorazioni, gli accessori, gli ambienti, Lubitsch si è sempre
dimostrato consapevole del fatto che un regista deve essere
anche un seduttore. “Non soltanto la mente e il cuore, ma
anche gli occhi devono venir soddisfatti” scrisse nel
1924. Passando dal muto al sonoro, attraversando un po' tutti
i generi, lavorando con le più affascinanti star dell'epoca,
da Pola Negri a Mary Pickford, da Carole Lombard a Marlene
Dietrich a Greta Garbo, da Maurice Chevalier a James Stewart a
Gary Cooper, gran signore sul set, come nella vita, ha firmato
pellicole senza tempo, che varrebbe la pena riscoprire...
In un'intervista Truffaut
ebbe a scrivere “L'espressione 'messinscena'
significa in Lubitsch finalmente qualcosa: qui si tratta
di un gioco, che si può giocare soltanto in tre e
solamente finchè dura il film. Chi sono i tre? Lubitsch,
il cinema e noi, il pubblico" |
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Se
Billy Wilder,, Max Ophuls, Otto Preminger, Joseph Mankiewicz,
Peter Bogdanovich sono considerati i diretti eredi del cinema
di Lubitsch, colui che forse più di ogni altro ha compreso
nelle sue molteplici sfaccettature l'opera di Lubitsch e ne ha
sviluppato con maggiore coerenza le premesse è
Francois Truffaut.
“Le influenze non si scelgono, vengono così. A forza di
rivedere i vecchi film ho cominciato ad amare molto i film di
Lubitsch e credo che sia l'influenza più forte che io abbia
subito recentemente. Attraverso Hitchcock ho preso lezioni di
efficacia, di semplificazione... Con Lubitsch sono attualmente
attirato da un lavoro sulla sceneggiatura; come trattarla per
renderla più interessante, come raccontare le cose attraverso
un gioco di rimbalzi, in modo indiretto” (Truffaut su
Truffaut).
È proprio il modo indiretto, ellittico di comporre il testo
filmico che rivela un'affinità profonda tra questi due autori.
Nessun altro più di Truffaut ha sviluppato al centro del suo
cinema quell'idea di “discorso indiretto” che egli identifica
giustamente come il cuore della ricerca lubitschiana.
Raccontare gli effetti per parlare delle cause, mostrare la
pre-azione e la reazione, invitando lo spettatore a immaginare
l'azione, isolare un dettaglio significante che faccia luce,
indirettamente, su un'azione che non viene mostrata
direttamente, sono tutti modi del discorso indiretto che
Truffaut mutua da Lubitsch, rielaborandoli all'interno dei
suoi film. Basterebbe pensare all'eleganza e alla perfezione
compositiva di film come L'ultimo metrò e
La signora della
porta accanto, forse i più lubitschiani dei film di Truffaut.
In un'intervista in occasione dell'uscita del film
Mica scema
la ragazza
nel 1972 il regista ha dichiarato: “Per me si tratta di una
comicità indiretta. Come certamente saprà, sono stato molto
influenzato da Lubitsch. Come lui cerco di raccontare storie
molto semplici ma in modo indiretto. Per esempio, piuttosto di
mostrare le scene di intimità tra Camille e Sam, faccio
sentire il disco di Indianapolis. Si sa che è una mania di Sam
in certe circostanze, perciò quando tutt'a un tratto esplode
il baccano delle macchine da corsa, anche se si sta in una
strada deserta, si capisce quello che sta succedendo.”
(Tutte le interviste di F. Truffaut).
La ricerca di Lubitsch è
talmente vicina al modo in cui Truffaut concepisce il
cinema, che quest'ultimo continuamente riscopre Lubitsch
all'interno della propria opera cinematografica e
critica. Il cinema di Lubitsch entra nel cinema di
Truffaut in perfetta continuità, così come nella sua
incessante, parallela attività di critico Truffaut ha
spesso come interlocutore implicito o esplicito Lubitsch,
sul quale aveva manifestato l'intenzione di scrivere un
saggio. |
Accomunati
purtroppo anche da una morte precoce (Lubitsch a 55 anni,
Truffaut a 52) ci hanno lasciato un'eredità di cinema come
arte dell'illusione e dell'elusione, in cui allo spettatore
è delegato il piacere della decifrazione della Forma. Un
cinema che, più lo si riscopre, e più appare brillare di una
magica modernità.
Cristina
Menegolli
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in ricordo
di
Leonardo, che citava a memoria tutte le
battute di Scrivimi fermo posta
e di Franco, che amava tanto
Antoine Doinel. |
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LLL
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ALTRE VISIONI |
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visioni online |
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Succession
ideata da Jesse Armstrong #
USA 2018/2019/2021
(Sky Atlantic
- 3 stagioni -29 puntate)
trailer |
(C.M.) Ideata da Jesse Armstrong (The
Thick of it,
Peep
Show,
Babylon),
coprodotta da Will Farrell e Adam McKay (Vice,
Don't
look up),
che ne dirige il pilot della prima stagione e distribuita da
HBO,
Succession,
arrivata pluripremiata alla terza stagione, rappresenta
sicuramente uno dei prodotti di maggior qualità del piccolo
schermo, confermandosi come la serie meglio scritta, diretta,
recitata e musicata degli ultimi anni. Sfiorando temi degni di
una tragedia shakespeariana, con l'ampiezza narrativa di un
romanzo ottocentesco, accompagnata da una buona dose di
ironia, la serie racconta la saga familiare di un magnate
della comunicazione Logan Roy (Brian Cox) e dei suoi quattro
figli, Kendall (Jeremy Strong), Siobhan (Sarah Snook), Roman (Kieran
Culkin) e Connor (Alan Ruck), e la lotta per il potere
all'interno della famiglia e al suo esterno per la
sopravvivenza nel mondo della concorrenza spietata.
Abbandonati nelle mani del padre padrone violento e
prevaricatore da una madre, aristocratica inglese, tanto
anaffettiva quanto snob, i giovani Roy, il tormentato Kendall,
la cinica e spregiudicata Siobhan, il disturbato Roman,
l'ingenuo sognatore Connor, quando arriva il momento di
decidere chi succederà alla guida dell'impero commerciale
creato dal padre, impero che comprende emittenti televisive,
carta stampata, compagnie di crociere, parchi a tema e quant'altro,
si scateneranno in una guerra di tutti contro tutti,
coinvolgendo anche quanti ruotano intorno a loro, in
particolare la segretaria Gerri, vera eminenza grigia, sempre
in grado di raccattare e riaggiustare i cocci per salvare le
cose, il marito di Siobhan, Tom, tipico arrampicatore sociale
e il cuginetto finto (?) tonto Greg, che gli fa da spalla.
Succession
è un ritratto spietato del potere innestato sulle dinamiche
familiari, disfunzionali come solo quelle tra parenti possono
essere.
Mentre la prima stagione verteva sull'incapacità dell'erede al
trono (Kendall) di vincere contro il tiranno, la seconda si
concentra sulle dinamiche distruttive di un regno sul punto di
crollare e la terza, forse la più bella, porta a compimento
questo processo di disgregazione, affrontando, senza
infarciture buoniste, i motivi dell'odio generazionale. La
sceneggiatura impeccabile, costruita su dialoghi brillanti e
irriverenti e sostenuta da attori tutti in stato di grazia,
segue l'evoluzione di ciascun personaggio, con le sue
fragilità, insicurezze e limiti, facendone emergere la
piccineria e la volgarità, ma nel contempo facendoci
simpatizzare con essi, eludendo in tal modo qualsiasi giudizio
moralistico.
Sono tutti personaggi negativi quelli di
Succession,
ma nello stesso tempo profondamente umani. Si muovono
all'interno della New York del jet set, ma si spostano anche
spesso tutti insieme per riunioni, anniversari, cerimonie in
giro per il mondo in location da favola e questi spostamenti a
bordo di limousine nere o di elicotteri e aerei privati
costituiscono delle pause della narrazione , a cui le scelte
di regia, grazie anche alla bellissima colonna sonora di
Nicholas Britell, conferiscono un ruolo, pari al coro di una
tragedia greca, di sottolineatura, della solennità e
dell'immanenza del potere. Per chi ha avuto modo di seguirla
senza interruzioni, la serie non presenta mai momenti di calo
del ritmo o dello stile, spietata, intelligente, esilarante,
volgare quanto serve, nell'epoca in cui le serie di maggior
successo sembrano volerci far riflettere sulla nostra miseria
e povertà (vedi
Squid Game
o
Maid),
Succession
rifugge da messaggi edificanti e semmai si prende la libertà
di dirci che siamo tutti meschini e volgari come i Roy, che
però, proprio in quanto tali, ci permettono di riderci
addosso.
“Sai qual è il bello di essere ricchi? Che è fottutamente
straordinario. È come essere un supereroe, solo meglio. Puoi
fare quello che vuoi. Le autorità non ti possono toccare.
Vesti un costume, ma è disegnato da Armani” (Tom).
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