Addio mia concubina (Bawang Bieji)
Chen Kaige - Hong Kong 1992 - 2h 50'

    Palma d'oro al Festival di Cannes ex aequo con Lezioni di piano

     È stato lento il cammino distributivo di Addio mia concubina rispetto a quello, sfolgorante, di Lezioni di piano, nonostante i due film fossero accumunati da un premio comune, la Palma d'oro vinta ex aequo al festival di Cannes dello scorso maggio. Così il melodramma di Jane Campion ha goduto del lancio internazionale della Croisette, mentre Addio mia concubina esce ora in sordina sul mercato italiano, accompagnato solo dalla forza della propria preziosità stilistica e dall'ambiguità di una tematica sofferta, nella complessità delle dinamiche private e politiche della Cina del XX secolo.
Si parte dalla metà degli anni 20 quando i due protagonisti, ancora ragazzi, muovono i loro primi passi nella scuola dell'Opera di Pechino, per tradizione tutta maschile. E' un'amara esperienza fatta di dura disciplina, di punizioni umilianti, di indottrinamento culturale sulla rigorosità dei riti teatrali e sulla simbiosi dei ruoli interpretativi in cui i giovani attori identificano via via la propria personalità. Accade così che nella iterata messa in scena del dramma Addio mia concubina, pezzo forte del teatro dell'opera, ad uno dei due amici, Duan Xiaolou, venga assegnato il ruolo dell'Imperatore sconfitto, mentre all'altro, il sensibile Cheng Dieyi, quello della sua fedele concubina, pronta a seguire, fino alla morte, la caduta dell'amato sovrano.
Dieyi resterà segnato a tal punto dall'intensità della sua performance femminile da confondere l'arte e la vita, da amare morbosamente il suo amico-sovrano, da consumare la propria esistenza nella ritualità della rappresentazioni teatrali e nella sofferenza per l'impossibile amore verso Xiaolou che invece sa vivere intensamente la propria maturità, prendendo coscienza della realtà politica e trovando moglie nella bella Juxian, un'ex-prostituta della "casa dei fiori".
Sull'impianto teatrale della vicenda privata, già intensa e straziante, Chen Kaige costruisce un fitto intreccio di riferimenti culturali e politici che accompagnano specularmente la crescita umana dei due amici e la storia sociale della Cina, dagli ultimi anni dell'Impero alla fine della Rivoluzione culturale. Così attraverso l'alternarsi delle glorie e delle miserie del teatro dell'Opera percepiamo i mutevoli atteggiamenti del regime e dei suoi seguaci, alle gelosie e ai dissidi interni tra i protagonisti fanno eco i tradimenti e i processi sommari che hanno visto, prima e dopo Mao, il continuo lacerarsi della solidarietà del popolo cinese e che coinvolgeranno drammaticamente Dieyi, Xiaolou e Juxian.
Chi vuole leggere dalla passionalità del titolo o dalla scabrosità del tema omosessuale, le premesse per un esplodere di quelle sequenze-scandalo che hanno reso famoso certo cinema orientale è davvero fuori strada. Addio mia concubina è una raffinata, estetizzante metafora di una realtà culturale controversa e irrisolta di cui Dieyi è una figura cardine emblematica, puntualizzata dallo stesso Chen Kaige nelle sue dichiarazioni: "Dieyi sa di provare un sentimento impossibile, che può realizzarsi solo nella finzione, sotto gli abiti sontuosi della concubina. Del resto lui non ne ha colpa; il punto chiave del film non è l'omosessualità, ma il rapporto dialettico tra la libertà personale e la pressione del gruppo. Dieyi non è un vero omosessuale, ma una persona di grande sensibilità che scopre di poter raggiungere la sua perfezione, se stesso solo sulla scena. E' un artista innamorato di un ideale estetico che aspira all'impossibile. E' un emarginato che nella sua diversità trova l'ultimo luogo della libertà".
Emarginazione sociale e libertà, due temi non facili da trattare nel contesto della Cina, ancor più ardui poi da mettere in sintonia tra gusti e culture così lontane come quella orientale ed europea. Ma Addio mia concubina riesce a concretizzarsi in una pellicola affascinante, di una ricchezza figurativa davvero eccezionale: l'asciutta e veemente parentesi dell'infanzia lascia un segno lacerante anche nello spettatore e se la scorrevolezza narrativa talvolta viene meno (il formalismo lezioso dei riti teatrali è una chiave di lettura spesso ostica per la nostra sensibilità) nulla si perde però dell'intensità globale di un'opera che arriva alla tragicità dell'epilogo in un crescendo incalzante, senza mai perdere di vista l'organicità del mosaico coreografico, regalandoci la scoperta di una problematicità culturale complessa e la suggestione di memorabili sequenze di vero cinema d'autore.

ezio leoni - La Difesa Del Popolo  14 novembre 1993