L'amico della mia amica (L'ami de mon amie)
Eric Rohmer - Francia 1987 - 1h 40'

6 commedie e proverbi, n° 6


  L’amico della mia amica può non piacere a tutti, come in genere il cinema di Rohmer che forse molti rifiutano proprio per la sua "giovinezza": e infatti è tenero e crudele, semplice e complesso, innamorato della superficie e in bilico sull’abisso. Queste sono anche le qualità dei suoi sempre giovani personaggi, soprattutto delle sue donne, incantevoli e indifese, eppure d’affilato acciaio nella loro esplorazione dei sentimenti. Come loro, il cinema di Rohmer parla con voce sommessa, ma dice cose che arrivano a ferire fino in fondo al cuore. Léa e Blanche hanno poco più di vent’anni, l’età che sta sulla soglia tra la prima giovinezza e quella che sarà, per sempre, la vita di ognuno. Dunque, Léa e Blanche stanno scegliendo, o così immaginano. Scelgono e decidono in quel territorio sconosciuto e difficile che è la passione: l’attrazione dei corpi, i fantasmi che danno forma al desiderio e l’angoscia che ne viene. […] L’una e l’altra, insieme maestre e allieve, si tengono per mano in un’avventura che nessuna ancora conosce davvero. Cosa cerca Rohmer in questa loro avventura? “Nel mio film - ha detto a proposito di L’amico della mia amica - cerco l’anima dei personaggi” (per questo un apologo sulla passione può essere girato senza che nulla o quasi venga mostrato dei corpi). E cosa è quest’anima? […] Rohmer non è uno di quei cinematografici noiosi moralisti, che considerano la cinepresa nulla più che uno strumento di analisi del mondo, uno strumento di conoscenza. Ma essa è per lui ben di più : uno strumento di creazione. Come un grande architetto, Rohmer parte da un’idea, da un’ipotesi, da un artificio attorno al quale poi costruisce. E infatti l’anima che egli cerca in Léa e in Blanche è “un’idea” sulla giovinezza, “un’ipotesi” sulla passione […] Come negli altri suoi film, anche qui Rohmer muove poco la cinepresa, preferendo invece le immagini statiche. Un po’come se non dovesse essere il cinema a rincorrere la vita e a copiarla per conoscerla, ma fosse proprio la vita a doversi adattare alla “forma” del cinema, a una sua idea e a una sua ipotesi. Così, lo sguardo della cinepresa ha spesso la prevalenza sui personaggi: essi entrano e escono dall’inquadratura immobile, che vive già un attimo prima della loro comparsa e ancora un attimo dopo la loro scomparsa. Eppure, nonostante la prevalente immobilità delle sue inquadrature, il cinema di Rohmer affascina i nostri occhi, che si muovono in continuazione sullo schermo, attratti ora da un punto e ora dall’altro, ora dal volto di Léa e ora da quello di Blanche, o magari da un particolare inanimato che, per magia, diventa il centro dell’immagine. Questo movimento interno all’inquadratura è appunto il risultato di quell’idea e di quell’ipotesi attorno alle quali l’architetto-poeta Rohmer costruisce la sua opera.

Roberto Escobar - Il Sole 24 Ore

cinema invisibile TORRESINO ottobre-dicembre 2010