Una domenica in campagna (Un dimanche à la campagne)
Bertrand Tavernier Francia 1994 - 1h 34'

da La Repubblica (Tullio Kezich)

       Negli anni 30 sarebbe stato un classico del cinema, nel 60 un capolavoro, nell'84 è solo un bellissimo film: Una domenica in campagna di Bertrand Tavernier film successivo in archivio, sceneggiato a quattro mani con sua moglie Colo da un romanzo breve (104 pagine) di Pierre Bost, Monsieur Ladmiral va bientót mourir (Gallimard). Forse fu l'ultima prova letteraria di Bost, nel 1945, prima che il cinema assorbisse intera la sua attività di scrittore nella famosa coppia con Jean Aurenche. Nato nel 1901, Bost scrisse una quindicina di romanzi e con Scandale arrivò a vincere il Prix Théophraste-Renaudot; ma diventò celebre con i copioni per Delannoy, Autant-Lara, Clément e altre grandi firme dei "cinema di papà". Certo è stato Aurenche, recuperato da Tavernier e suo collaboratore preferito, a segnalare al regista il libretto dell'amico.
Monsieur Ladmiral è un'operina toccata dalla grazia, che menterebbe una traduzione italiana: la cronaca di una domenica a Saint-Ange-des-Bois presso Parigi dove l'anziano pittore Urbain Ladrniral, ex Prix de Rome e artista pluridecorato, riceve la visita di figli e nipoti. Il racconto dura poche ore, dalla mattina inoltrata al tramonto, e descrive l'intreccio di sentimenti e risentimenti fra tre generazioni. Non contano gli eventi minimi della giornata festiva (l'arrivo, il pranzo, la siesta, i giochi dei ragazzi, i discorsi obbligati), ma ciò che c'è dietro sul fatale approssimarsi della morte, l'amarezza struggente dei bilanci esistenziali. Il vecchio Ladmiral si interroga sui sentimenti per il figlio Gonzague, che ha la vocazione del benpensante e per la prediletta figlia Irène; ma anche sulla pittura che ha sempre fatto e su quella che avrebbe potuto fare. I nipoti rumoreggiano intorno sconvolgendo la vita tranquilla del rifugio campestre, più allarmanti che affettuosi, e la serva s'inchina ai voleri del padrone sempre agitando la tremenda minaccia di lasciarlo solo.
Un felice esempio di letteratura intimista, sulla falsariga del romanzo d'analisi tra Proust e i racconti di Mann; e il film, che ogni tanto ricorre alla voce fuori campo, ne sembra la fedelissima illustrazione. Si pensa a quello che dice Win Wenders in Lo stato delle cose: "Non conta la storia, bastano gli spazi fra i personaggi". Tavernier penetra in questi spazi con un evidente gusto del grande cinema, ma anche della grande pittura: i numi tutelari dell'operazione si direbbero Renoir padre e figlio, il pittore impressionista 'e a cineasta del realismo psicologico. La macchina da presa sembra respirare a pieni polmoni quando contempla prati, alberi e sentieri negli esterni del giardino; ma è altrettanto ispirata quando, sulla musica di Gabriel Fauré, accarezza l'arredo degli interni d'epoca protagonistizzando quello che i vecchi teorici chiamavano "materiale plastico".
Nel contesto, il regista fa agire una compagnia di attori visibilmente coinvolti, degni di Stanislawski o di un film di Bergman (molto buono il doppiaggio diretto da Marco Tullio Giordana). L'irruente Sabine Azéma che fa un’Irène adorabile e vulnerabile; il compassato Michel Aumont (Gonzague, ma la moglie lo ha ribattezzato Edouard): un vecchio ragazzo che nasconde irrisolte turbe adolescenziali dietro un eccesso di rispettabilità; ma soprattutto Louis Ducreux stupendo eroe borghese di una vita d'artista culminata in una silenziosa guerra dei sentimenti, presenza centrale di un evento dove la realtà si impadronisce dell'invenzione cineletteraria e ne fa qualcosa che ci tocca, oltre la finzione dello spettacolo. Ducreux era sparito da quel dì dai repertori e dagli almanacchi, pur essendo un attore con una lunga vicenda di commediografo, canzonettista e collezionista d'arte (alcuni dei quadri che si vedono nel film provengono dalla sua collezione). La sua apparizione sullo schermo vale quella di Victor Sjostrom in Il posto delle fragole è uno dei, rari casi in cui l'interprete divenla il film e dietro il personaggio di fantasia fa indovinare nei gesti negli sguardi e nelle intonazioni il frammentario disegno di una confessione a livello psicoanalitico affidata alla simpatia di chi guarda.
Sul racconto, Tavernier ha operato poche ma significative variazioni. Fra le novità c'è la presenza di due bambine in cappellino di paglia, che saltellano qua e là mezze reali e mezze immaginarie a rappresentare il miste rinnovarsi dell'esistenza: ed è forse l'unica idea intellettualistica di una strategia compositiva degna di un manuale di drammaturgia. Spostando l'epoca all'indietro di una decina d'anni rispetto al libro, che sembra svolgersi nel dopoguerra del '14-18, il regista accentua il carattere provocatorio dei personaggio di Sabine Azéma e insiste a tormentone nel farla telefonare a un amante irreperibile.
Alla giovane donna è anche attribuito un dono divinatorio, e solo nel film Irène legge nella mano della nipotina un destino tragico richiamato dall'innocuo incidente (anche questo nuovo rispetto al libro) della bimba che si arrampica su un albero e non sa come discenderne. Un rapido prossimamente di futuri dolori, al quale si collega il "flash in avanti" di Gonzague che soffre immaginando il padre già composto sul letto di morte; e c'è anche un duplice "flashback" in cui prima Ladmiral e poi Irène ricordano la rispettiva moglie e madre (al suono di musichette infantili per pianoforte, Il contadino allegro di Schumann e una Wiener Sonatine mozartiana). Il senso amaro dei racconto è affidato a un altro ricordo-sogno di Gonzague forse un po' troppo bergmaniano: i genitori chiamano a un "dèjeuner sur l'herbe" nel prato sotto casa lui e la sorella, ancora bambini, ma le fragole promesse non ci sono e i piatti sono vuoti. E' così anche la vita?
Travolta dalle sue amorose nevrastenie, nel racconto di Bost la figlia torna a Parigi senza aver portato il vecchio a fare il promesso giro in automobile; sullo schermo Tavernier glielo concede, con tanto di sosta a un "bal musette" campestre (ma quel complessino non è troppo revivalistico?) scambio di riflessioni sul passato e presente e poetico ballo d'addio. Monsieur Ladfniral alias Ducreux, non sa se ha speso bene la sua vita, se ha dipinto le cose giuste. Non sa nemmeno che cosa vale veramente la pena di dipingere: questo è il senso dell'ultima scena, con il protagonista che toglie dal cavalletto il quadro accademico lasciato a metà, ci mette su una tela bianca e rimane seduto a contemplarla. C'è perplessità, non disperazione. C'è la speranza indomabile di arrivare a dipingere ancora qualcosa di buono. C'è la pungente consapevolezza, e ci riguarda tutti, che il tempo è poco. A questo punto, Una domenica In campagna, film per cinefili della vecchia ondata e per chi ama il "cinema dell’anima", sta per pronunciare la parola magica. Ma prima che comincino a scorrere i titoli di coda c'è solo un'estrema enigmatica immagine del giardino risplendente di sole.

 

 

da Il Corriere della Sera (Giovanni Grazzini)

       Film che ci risarcisce, memore dei Renoir, dei danni inflitti al buon gusto, alla grazia e alla misura dal cinema per ragazzacci. Film di tenere ombre e luci discrete. Film di fremiti e sorrisi. Dunque film da vedere con animo raccolto, senza aspettarsi nessun'altra emozione che quella prodotta da un lieve trascorrere nella piccola cronaca di ieri, ma tutta punteggiata di gesti musicali e di colori armoniosi. E da gustare nei dettagli, nei cenni minuti che fanno vibrante la memoria d'un'epoca, i costumi d'una provincia.
Monsiuer Ladmiral, vecchio pittore vedovo, abita con una serva-padrona in una bella villa nei pressi di Parigi. E' una domenica del 1912, e l'uomo si rallegra che siano venuti a trovarlo, col treno, il figlio maggiore, la nuora, i nipotini: portano un soffio di vivacità e devozione nella sua vita orinai priva di sorprese. Ma molto più si allieta quando arriva inaspettata, al volante della sua automobile, la figlia minore Irène, una ragazza impetuosa ed emancipata, che non cessa di rimproverare a papà il suo modo antiquato di dipingere, tanto più da quando ha trovato in soffitta un suo quadro giovanile che prometteva un talento innovatore, più sulla scia degli impressionisti che della pittura accademica a cui si è poi dedicato.
E' appunto con Irène, mentre gli altri consumano la domenica in conversazioni banali (e i ragazzi giocano sui prati) che Ladmiral conosce i momenti più belli. Perché nonostante soffra pene d'amore, anzi proprio per questo, Irène gli ricorda la giovinezza e gli procura il tenero rimpianto di quel libero artista che egli avrebbe forse potuto essere; perché la donna porta scompiglio nei rituali familiari; perché, a differenza del fratello maggiore, incarna la passione e gli ha detto il suo affetto in un ballo paesano. Sicché, quando tutti sono partiti, il vecchio mestamente sorride. Mette da parte il quadro di maniera a cui stava lavorando e di fronte a una tela bianca forse si chiede, ma senza rancore verso la vita, se non abbia tradito se stesso, se magari non possa, ormai settantenne, ricominciare da capo.
Si sarà capito che Bertrand Tavernier (dieci film in dieci anni, tutti onorevoli) ci ha dato stavolta un film-poemetto, molto lirico e molto affettuoso, sull'emozione di vivere. Sceneggiando con la moglie il romanzo di Pierre Bost "Monsieur Ladmiral va bientòt mourir", valendosi della morbida fotografia a colori di Bruno de Keyzer e della musica di Gabriel Fauré, Tavernier restituisce con sensibilità ammirevole un'età, un ambiente, un confronto di caratteri.
La storia che racconta è breve, ma ricchissima di toni. La forma è molto elegante, ma mai stucchevole. Siamo nel solco, così confortante quando il seme fruttifica in penombra, di quel cinema francese intimista che coglie i brividi sotterranei della realtà quotidiana, il retroterra delle parole, e li mette a paragone con una natura autunnale fasciata di malinconia. Non per ciò Tavernier è un autore crepuscolare. E' piuttosto un realista imbronciato per gli inganni del Tempo, e tuttavia soccorso dalla certezza che la vita degli affetti può vincerli. L'attenzione con cui li assaggia e ispeziona, l'occhio con cui ne visita le sfumature, la fluidità della rappresentazione sono i meriti maggiori di un film che, appunto senza alcuna zona morta, inventa un universo limpido e sereno, nel quale ogni momento ha la giusta cadenza, ogni carattere il suo segno immediato.
Fra gli interpreti primeggia Louis Ducreux, uno di quei deliziosi attori teatrali vissuti un po' in disparte (ma ha scritto anche canzoni, e musiche per i film di Max Ophuls: e sua è la polka che Monsieur Ladmiral balla con la figlia) dai quali il cinema ricava nuovo prestigio. E al suo fianco Sabine Azéma si conferma preziosa, per slancio e freschezza. Brillante e fragile come conviene alla sua Irène.

CINEMA e PITTURA

i  lunedì del  LUX   febbraio-aprile 2004